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La divina liturgia incorporazione del fedele in Cristo

Con l’eucaristia Cristo Gesù si offre all’uomo nel suo Corpo e nel suo Sangue affinché l’uomo diventi “un solo corpo (syssomos) e un solo sangue (synaismos) con lui” come egli stesso ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56). Nel suo grande amore per l’uomo, Cristo ha assunto in sé la natura umana per donare all’uomo la vita divina.

Con queste parole si esprime san Giovanni Crisostomo:

“il miracolo dei misteri, cosa sia mai, perché fu dato, quale ne sia l’utilità. Diventiamo un solo corpo e membra, è scritto, tratte dalla sua carne e dalle sue ossa (Ef 5,30)”… Per non diventare dunque un solo corpo con Cristo unicamente nell’amore ma nella realtà stessa, mescoliamoci con quella carne! Ciò avviene con il cibo che gli ci ha donato, quando ha voluto mostrarci l’amore appassionato che nutre per noi… Per questo si è mischiato con noi ed è divenuto con noi un solo corpo, perché fossimo con lui una cosa sola, com’è il corpo è congiunto alla testa. Segno, questo, di coloro che amano con ardore”.

Non in teoria, “ma nella realtà stessa”, il credente grazie alla divina eucaristia diviene un solo corpo con Cristo, un’unica unione, un unica mescolanza. All’amore infinito di Dio non sono bastati l’incarnazione, la morte sulla croce e la sepoltura, ma è voluto andare oltre, sino alla donazione di sé nell’eucarestia, cristificando, rendendo simile a sé l’uomo. Come ancora aggiunge il Crisostomo, Cristo “fonde se stesso con noi, e non solo per la fede ma nella stessa realtà ci rende suo corpo”. Al termine dell’Omelia XV sulla Prima Lettera a Timoteo, san Giovanni Crisostomo, facendo parlare Gesù in prima persona, dice:

“Sono disceso di nuovo sulla terra, non solo per mescolarmi tra quelli della tua gente, ma anche per abbracciarti: mi lascio mangiare da te e mi lascio sminuzzare in piccole parti, affinché la nostra unione mescolanza siano veramente perfette. Infatti, mentre gli esseri umani che si uniscono conservano ben distinta la loro individualità, io invece costituisco un tutt’uno con te. Del resto non voglio che qualcosa si frappongono fra noi; questo solo io voglio: essere entrambi una cosa sola”.

Fra Cristo è il credente non si interpone più niente e nella fiamma del suo amore tutto si è fuso: “Noi è Cristo siamo una cosa sola”.

San Simeone il Teologo, con il cuore ricolmo di Cristo, sciogliendo la sua lingua, canta nel suo Inno:

” membra di Cristo diventiamo,

e Cristo diviene le nostra membra:

Cristo, la mano mia, e Cristo il piede mio

– di me, tutto miseria -:

e io, miserabile, mano di Cristo e piede di Cristo.

Muovo la mano, e la mia mano è Cristo tutto intero

–  considera anche l’indivisibile divinità divina -.

Muovo il piede, ed ecco, brilla come lui.

Non dire che bestemmio, ma accogli quanto attesto

e adora il Cristo che di te fa questo”.

Il credente riempito della luce di Cristo, sfolgora totalmente e tutte le sue membra diffondono luce, pervadendo il mondo della luce di Cristo.

Per questa ragione, il grande mistero dell’unione mistica, non implica soltanto il singolo fedele, ma tutto il mondo. Presentando a Dio pane e vino offriamo il mondo che diventa eucaristia: “Quando il calice mescolato e il pane preparato ricevono la parola di Dio (cioè la supplica dello Spirito Santo) divengono eucarestia, cioè il sangue e il corpo di Cristo”, dice sant’Ireneo di Lione.

Riporta in questo modo l’Anafora di Basilio: “Ti preghiamo e ti invochiamo, o Santo dei santi: per il beneplacito della tua bontà, venga il tuo Spirito su di noi e sui doni qui presenti … Crea l’unità tra tutti noi che comunichiamo all’unico pane e all’unico calice, nella comunione dell’unico Spirito”. Grazie allo Spirito Santo, la santità di Dio si trasmette ai fedeli radunati nel medesimo luogo e per la stessa azione e li trasforma un solo corpo, nel corpo di Cristo. Questa unione, sicuramente personale, è anche ecclesiale ed universale. Non solo l’uomo è santificato e cristificato, tutta la creazione è santificata e rinnovata. L’uomo diventa, per grazia, Cristo e il mondo la casa di Dio. Il sacramento dell’eucaristia diviene l’ingresso tramite cui Cristo entra nell’uomo e nel mondo, come dice san Nicola Cabasilas: “è questa la via (la via dei santi misteri) che il Signore ha tracciato venendo a noi, è questa la porta da lui aperta entrando nel mondo; né, nei quando è tornato al Padre, ha voluto chiuderla, ma per essa dal Padre ritorna agli uomini”.

diac. Antonio Calisi


La divina liturgia è l’incontro tra cielo e terra

Nella riunione eucaristica dei fedeli, la presenza della Santa Trinità realizza il vero e grande incontro tra cielo e terra e diventa il luogo dove Dio viene ad abitare, dove Dio “pone la tenda con gli uomini” (Ap 21,3). Non solo l’uomo, ma tutto il creato, tutte le realtà, si radunano nello stesso posto nello stesso tempo e insieme (ἐπὶ τὸ αὐτὸ) per magnificare Dio, “sull’altare posto davanti al trono” di Dio (Ap 8,3), così come insegna san Dionigi: “la bellezza sovra- essenziale, è chiamata bellezza…, perché chiama a sé tutte le cose… e tutte le raccoglie insieme”.

Questa è la realtà della divina liturgia: l’intera creazione si raduna in unità nello stesso luogo per benedire Dio e mettersi in cammino verso il Regno dei cieli. Per questo motivo san Giovanni Crisostomo e altri padri definiscono la divina liturgia sinodo (gr. σύνοδος composto da σύν «con, insieme» e ὁδός «via»), perché tutti insieme camminiamo verso Dio: “Nessuno di coloro che mangiano questa Pasqua (la divina eucaristia) guarda l’Egitto, ma al cielo, alla Gerusalemme celeste”.

Nela divina liturgia è presente Gesù Cristo: “Quando stai per accostarti alla sacra mensa, credi che lì è presente il Re di tutti”. È il Signore Gesù, “che raduna (ekklêsiàzôn) tutte le creature” e invita intorno al santo altare tutte le realtà e “provvidenzialmente le unisce sia a se stesso che fra di loro”.

Vicino a Gesù c’è la Madre di Dio, perché ancor prima che Gesù preparasse la sua Cena, nella Madre sua si è compiuto, per la grazia dello Spirito Santo, la verità soprannaturale della nostra redenzione: “Il tuo seno è divenuto mensa santa su cui ha riposato il Pane celeste”.

Nella divina liturgia la Regina dei cieli siede alla destra del Re: “Dove Cristo si è assiso… sta anche lei… perché davvero è il suo trono: dove siede il re, lì vi è il suo trono”.

Le schiere angeliche sono la corte celeste di Gesù Cristo. Il Signore procede verso il Golgota “invisibilmente scortato dalle angeliche schiere”, e nell’istante dell’oblazione le creature ultraterrene celebrano insieme a noi l’amore di Dio.

Insieme agli angeli compartecipano alla divina eucaristia “il coro dei santi” riuniti intorno all’altare, vicino a Cristo, “si trova, inseparabilmente, la schiera dei santi”. Nella riunione eucaristica si festeggia la vittoria di Gesù Cristo e coloro che sono uniti a Lui nel sinodo, sono partecipi in quella circostanza: “Quando si celebrano i trionfi dei re per la vittoria sono a chiamati anche coloro che vi hanno preso parte…, così anche qui: questa è l’ora del trionfo”.

Nella Divina liturgia prendono parte anche i nostri fratelli deceduti per i quali imploriamo la compassione di Dio e ricordarli nella sinassi liturgica significa “molto profitto, grande giovamento” per le loro anime.

In questa maniera, cielo e terra, angeli e uomini, vivi e defunti celebrano congiuntamente e benedicono il Signore per la sua grande misericordia. “Terra e mare, regioni abitate e regioni deserte inneggiano eternamente, rendendo grazie per i beni ricevuti”. Tutti gli esseri umani innalzano la loro gratitudine “A colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e Potenza, nei secoli dei secoli” (Ap 5,13).

diac. Antonio Calisi


La Divina Liturgia manifestazione della Trinità

La divina economia è una teofania trinitaria dell’amore di Dio per l’uomo che si manifesta nella divina liturgia in cui il fedele vive, per grazia, questo mistero. Come dice san Giovanni il Teologo, il suo celebrante “ci svela la santa Trinità”.

Sin dall’inizio la Divina liturgia ci invita a entrare nel mistero della presenza trinitaria con le parole del sacerdote: “Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.

Seguono le ekphoneseis[1] (greco ἐκφώνησις “esclamazione”) trinitarie, le tre antifone, l’inno trisagio in cui cantiamo “alla Trinità vivificante” e giungiamo al momento centrale della divina liturgia in cui ci viene offerto dal celebrante “la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito santo”.

In seguito ringraziamo Dio per tutto quello che ha compiuto i noi con il suo amore: “Tu dal nulla ci hai tratti all’esistenza e, caduti, ci hai rialzati; e nulla hai tralasciato di fare fino a ricondurci al cielo e a donarci il futuro tuo regno. Per tutti questi beni rendiamo grazie a te, al unigenito tuo Figlio e al tuo Spirito santo”. Successivamente a questo ringraziamento, si supplica il Padre delle luci affinché invii lo Spirito Santo Paraclito a consacrare l’offerta del Figlio. Lo Spirito Santo Paraclito viene come “il sussurro di una brezza leggera” (cf. 1Re 19,12) e compie lo straordinario miracolo, offrendoci la presenza di Gesù Cristo. Comunicando al santo Corpo e al preziosissimo Sangue di Cristo diventiamo abitazione della Santa Trinità. Il cuore e il corpo dei credenti si riempiono della luce divina divenendo abitazione del Dio trinitario, ospitando in sé l’amore trinitario. Perché, dice sant’Atanasio, «se “uno” è in noi, è possibile dire che la Trinità (intera) è in noi». San Giovanni Crisostomo, a riguardo del fedele che si è unito a Cristo nell’eucaristia, afferma: “Ha Cristo dimorante in se stesso, e il Padre di lui, e il Paraclito”.

E ancora così insegna il santo patriarca di Costantinopoli, Germano “Diventando così testimoni oculari dei misteri di Dio, partecipi della vita eterna e partecipi della natura divina, glorifichiamo il grande, incommensurabile e inscrutabile mistero della dispensazione di Cristo Dio, e glorificandolo, gridiamo: “Ti lodiamo” – Dio e Padre – “Ti benediciamo” – Figlio e Logos – “Ti rendiamo grazie” – Spirito Santo – “O Signore nostro Dio” – la Trinità nell’unità consustanziale e indivisa, che possiede meravigliosamente sia la distinzione delle Persone sia l’unità della sola natura e divinità”[2].

Alla fine della divina liturgia la nostra anima diventa “Cristofora” portatrice di Cristo” ed effonde la luce trinitaria a tutti coloro che incontriamo: “Abbiamo visto la luce vera, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la vera fede, adorando la trinità indivisibile: essa infatti ci ha salvati”.

[1] Sono delle conclusioni che lodano, esaltano e glorificano Dio cantate ad alta voce, a conclusione di una preghiera recitata dal celebrante nella liturgia orientale.

[2] GERMANO DI COSTANTINOPOLI, Storia ecclesiastica e contemplazione mistica, traduzione, introduzione e note a cura di Antonio Calisi, Infinity Books, Malta 2020, p. 92.

diac. Antonio Calisi


La Divina Liturgia compendio di tutta l’economia della salvezza

Gli avvenimenti realizzati meravigliosamente da Dio per ricondurre tutta l’umanità, dopo la caduta nel peccato originale, nel suo Regno e renderlo nuovamente suo familiare, sono definiti nel loro insieme divina economia. San Basilio il Grande afferma: “L’economia di Dio e nostro Salvatore, riguardo all’uomo, consiste nel richiamarlo dalla sua condizione di decadimento, nel ricondurlo alla familiarità di Dio dallo stato di alienazione causato dalla disobbedienza”. Nella Divina liturgia noi viviamo nello Spirito Santo questa economia compiuta in Gesù Figlio di Dio per la nostra salvezza, tributando gloria, lode e ringraziamento a Dio Padre. San Giovanni Crisostomo ci rammenta: “I misteri pieni di doni di salvezza che celebriamo in ogni riunione liturgica sono chiamati “eucaristia”, cioè ringraziamento, perché sono il memoriale dei molti benefici ricevuti e presentano la manifestazione più elevata della provvidenza di Dio”.

Nella Divina liturgia il credente rivive questo mistero che “riassume figuralmente l’intera legge (della Provvidenza)”[1] e nei segni misterici, sperimenta la sua realizzazione. Per questo motivo alla fine il celebrante ancora san Basilio ci dice: “È compiuto è terminato, o Cristo Dio nostro, il mistero della tua economia”.

Come dice il Crisostomo, il mistero della economia divina si è rivelato contemporaneamente al peccato di Adamo e Dio, amico degli uomini “vide subito quant’è era successo (la caduta) e la grandezza della piaga, e si affrettò a procedere alla cura perché essa, allargandosi, non si convertisse in una ferita inguaribile… Nemmeno per un istante cessò, mosso dalla sua bontà, di provvedere all’uomo”. Con azioni straordinarie e attraverso i profeti, Dio disponeva l’umanità a prendere parte alla totalità della sua vita e del suo amore.

Molti sono gli avvenimenti e gli annunci profetici dell’Antico Testamento che simboleggiano esplicitamente il grande mistero del sacrificio eucaristico. Il primo è sicuramente il dono del pane e del vino fatto da Melchìsedek re di Salem ad Abramo (cf. Gn 14,18-20). Come afferma san Giovanni Damasceno, Melchìsedek “era figura ed immagine del vero sommo sacerdote Cristo” e Giovanni Crisostomo dice: “Egli, “mosso da spirito profetico, avendo compreso che l’oblazione futura sarebbe stata presentata per le genti, prestava culto a Dio con pane e vino, imitando il Cristo venturo”. Nello Spirito Santo, Melchìsedek richiama quello che non era ancora compiuto in cui la sua offerta è imitazione dell’offerta di Cristo.

Il sacrificio di Isacco (Gn 22, 1-14) è analogamente un preannuncio del sacrificio di Cristo e dell’oblazione eucaristica, così come il sacrificio del profeta Elia sul monte Carmelo, mentre sfida i profeti di Baal, (1Re 18, 1-40). Nella visione di Isaia in cui viene investito della missione profetica (Is 6, 1-7) si richiama una situazione liturgica dove il Signore è assiso in trono, circondato dai serafini, i quali cantano il trisagio, nel momento in cui viene presentato il sacrificio dell’incenso. Il sogno del patriarca Giacobbe che vide una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio che salivano e scendevano su di essa. (Gn 18,12) e la profezia di Malachia “Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le nazioni e in ogni luogo si brucia incenso al mio nome e si fanno offerte pure, perché grande è il mio nome fra le nazioni. Dice il Signore degli eserciti” (Mal 1, 11) si riferiscono alla divina eucarestia.

Sicuramente la pasqua ebraica è l’avvenimento prefigurativo per l’eccellenza dell’eucaristia. Questa festa è un ricordo e un’incessante ringraziamento a Dio per la sua salvezza operata nei confronti degli ebrei liberati dalla schiavitù dell’Egitto. Gli eventi che si sono verificati durante la fuga, come dice san Giovanni Crisostomo, sono “misteri tremendi e terribili, ricchi di grande profondità. Se poi quei misteri sono così terribili nelle figure, quanto più nella verità… Ora, la verità è questa. Anche noi mangiamo la Pasqua, Cristo!”.

Tutti gli avvenimenti narrati nell’Antico Testamento hanno predisposto, nella pienezza dei tempi, la manifestazione della verità che è Gesù Cristo “per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9, 26), rivelando così la vera grandezza del mistero della divina economia. Perché Gesù Cristo è la sintesi di questo mistero e come dice Teodoro vescovo di Andida, ciascun evento della sua vita trova nella celebrazione eucaristica: “ciò che si compie nel divino sacrificio immagine della salvifica passione, sepoltura e resurrezione di Cristo… e di tutta la sua salvifica permanenza tra noi ed economia nei nostri confronti”. Nella Divina liturgia, dice Dionigi l’Areopagita, il celebrante, “stando davanti al divino altare celebra le sante operazioni di Gesù… In seguito… opera i divinissimi misteri e porta alla vista le cose celebrate”. San Nicola Cabasilas afferma che innanzi a noi si svolge tutta la vita di Cristo, perché “l’intera mistagogia è come un’unica rappresentazione di un medesimo “corpo”, che è la vita del Salvatore”.

Poiché gli occhi della fede vedono l’invisibile, il luogo dove si officia l’eucaristia è la grotta dove è nato il Salvatore, dove ogni credente, dice Crisostomo, deve “accorrere a Betlemme (la chiesa), dov’è la casa del pane spirituale”. Allo stesso modo con gli Apostoli noi prendiamo parte al banchetto mistico della Prima Cena, perché nella Divina liturgia, dice ancora il nostro santo Arcivescovo di Costantinopoli, “c’è la stessa cena alla quale Gesù prese parte con gli apostoli. Non c’è infatti nessuna differenza tra l’ultima cena e la cena dell’altare” e ancora afferma: “Questo è lo stesso cenacolo dove, allora, erano riuniti Gesù e gli apostoli; di là essi uscirono per andare al monte degli Ulivi”.

Il santo altare è il Golgota: “Questo (il mistero dell’eucaristia) è tipo di quello (il sacrificio del Golgota), e viceversa: poiché offriamo sempre lo stesso Cristo”, ci rassicura san Giovanni Crisostomo, e ancora, ed è anche il santo sepolcro, luogo della resurrezione “Il mistero celebrato a Pasqua non è per nulla più grande di quello che ora stiamo celebrando. È un unico e medesimo mistero, come medesima e la grazia dello Spirito: è sempre Pasqua”.

La Divina liturgia è la Pasqua perpetua della Chiesa, l’inizio della nuova era che entra impetuosamente in quello vecchio in cui ci dona la presenza vera del Regno di Dio come leggiamo nell’anafora di San Giovanni Crisostomo: “Non hai cessato di fare tutto quanto era necessario per ricondurci al cielo, e ci hai fatto dono del tuo regno futuro”. Così Dio ci dona già in questa vita presente il suo Regno, facendoci passeggiare con Lui nel giardino alla brezza del giorno (cf. Gen 3,8).

Come abbiamo visto, nella Divina liturgia sono compresenti le realtà lontane e vicine, il principio e la fine, in cui si attualizza il mistero di Gesù Cristo. E come Gesù Cristo è “l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap 22,13), allo stesso modo la Divina liturgia è, in Gesù Cristo, il punto di incontro dello spazio e del tempo e della loro trasfigurazione in uno spazio e in un tempo liturgico.

[1] TEODORO LO STUDITA, Prima Confutazione, 10, PG 99, 340C; cf. TEODORO LO STUDITA, Antirreheticus Adversus Iconomachos. Confutazioni contro gli avversari delle sante icone, Traduzione, introduzione e note a cura di A. CALISI, Independently published 2019, p. 35.

diac. Antonio Calisi


San Giovanni Crisostomo e la Divina liturgia

San Giovanni Crisostomo (Antiochia di Siria, 344/354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), fu arcivescovo di Costantinopoli. È noto per le sue potenti omelie, per la sua capacità di parlare, per la sua denuncia degli abusi commessi dai capi politici ed ecclesiastici del suo tempo e per le sue pratiche ascetiche. Il suo zelo e il suo rigore furono causa di forti opposizioni alla sua persona. Dovette subire un doppio esilio e durante un trasferimento morì. Grazie alle sue doti retoriche gli fu dato il soprannome di Crisostomo (in gr. χρυσόστομος, chrysóstomos, letteralmente «bocca d’oro»), titolo definito per la prima volta nella “Costituzione” di Papa Vigilo nel 553.

Come filosofo e teologo, Giovanni riecheggia e trasferisce efficacemente nell’omiletica i temi della tradizione patristica greca e soprattutto della scuola antiochena. La sua personalità è quella di un uomo innamorato della morale, vissuta come “amore in atto”, desideroso di riformare la vita cristiana, secondo l’ideale delle primitive comunità cristiane.

All’epoca di san Giovanni Crisostomo la Liturgia iniziava con l’ingresso del vescovo nel tempio e il dono della pace al popolo: “Il padre (vescovo), entrando qui (nel tempio), non sale sul suo seggi senza aver prima augurato la pace a tutti!”. Il popolo ricambiava l’augurio ricevuto dicendo: “E allo Spirito tuo”. Venivano dopo tre letture bibliche: una presa dai profeti, una dagli scritti apostolici e una dai Vangeli. Finite le letture, il vescovo illustrava la Parola di Dio; in seguito si pregava per i catecumeni e per i fedeli penitenti.

Una volta mandate via queste persone, le porte della chiesa venivano chiuse. Era il momento delle preghiere dei fedeli, il grande ingresso e del bacio dell’amore. Seguiva l’anafora, con il canto dell’inno di vittoria, le parole di Cristo l’invocazione, epiclesi, nello Spirito Santo. La liturgia proseguiva con le intercessioni per i fedeli, il Padre Nostro, la Comunione, il ringraziamento e il commiato dei fedeli.

Giovanni Crisostomo, come Basilio, compilando la divina liturgia ha utilizzato antiche preghiere liturgiche. Alcune preghiere, nondimeno sono state scritte sin dall’inizio da lui. Il suo biografo Giorgio di Alessandria riferisce che, quando il santo era a Cucusa in Armenia, ordinò sette vescovi e molti presbiteri per i bisogni della Chiesa in quel luogo, “stabilendo per essi anche regole per la salmodia, consegnando adesso, altresì, la divina mistagogia”.

Il cuore della liturgia è formata da una sequenza di orazioni che ci sono state tramandate fondamentalmente nella forma in cui le proferiva san Giovanni Crisostomo quando era vescovo a Costantinopoli. In riferimento al loro argomento specifico e fino alla loro stessa precisa formulazione, questi testi appartengono palesemente alla modalità di scrittura che rimandano alle opere di san Giovanni Crisostomo.

La liturgia di san Giovanni Crisostomo nella sua forma odierna presenta aggiunte successive: l’inizio differente (VIII secolo), il trisagio e il simbolo di fede (V secolo), l’inno O figlio unigenito (Ho monoheghenes), l’inno cherubico e lo zéon (VI secolo), la soppressione della lettura tratta dai libri profetici. Similmente, nell’VIII secolo la preparazione dei Santi Doni (Proskomidi) è stata anticipata prima dell’inizio della liturgia.

Argomentando sul servizio sacerdotale all’altare, san Giovanni Crisostomo ci riferisce senza intenzione, le proprie esperienze liturgiche.

Il vero celebrante della Divina liturgia è Cristo: Colui che ha celebrato l’Eucaristia “durante quella cena anche oggi opera lo stesso miracolo. Noi abbiamo l’ordine di ministri, ma è lui che santifica e trasforma le offerte”. Il celebrante, offrendo se stesso a Cristo, diviene strumento di Cristo, sta al posto di Cristo.

Il sacerdote, spiega san Gregorio il Teologo, si trova in compagnia degli angeli, glorifica Dio con gli arcangeli, eleva i sacrifici all’altare dal cielo, officia con Cristo. E prosegue: “Io so di chi siamo ministri, dove ci troviamo e dove ci dirigiamo”. Il sacerdote è sulla terra e si spinge nel cielo. Sta tra terra e il cielo, tra l’uomo e Dio: “Il sacerdote sta in mezzo tra Dio e la natura umana, facendo scendere verso di noi i benefici che provengono di lì e innalzando fino a lì le suppliche che nascono da noi”. La celebrazione della Divina liturgia pone il celebrante nel cielo: “Il trono del sacerdote è situato nei cieli “, scrive san Giovanni Crisostomo. Perché, “quando il sacerdote invoca lo Spirito santo e compie il sacrificio tanto terribile ed è a contatto continuamente col comune Signore di tutte le cose, dimmi, in quale ordine lo porremmo? Quale purezza e quale pietà non cercheremo da lui?”. Dal sacerdote si pretende una santità celestiale, perché sia esecutore in un’opera che Dio non ha assegnato nemmeno agli angeli.

Davanti all’altare san Giovanni Crisostomo viveva il mistero dell’Amore di Dio, accogliendo dal cielo l’Amore divino che donava ai suoi figli sulla terra. La sua vita la sua parola, il suo martirio sono di conseguenza il migliore commento della Divina liturgia che egli potesse dare, poiché la Divina Liturgia, ossia Gesù Cristo, era la sua vita e la sua vita era una continua liturgia eucaristica che egli elevava a Dio.

diac. Antonio Calisi


La Mistagogia di Massimo il Confessore

Massimo il Confessore (Palestina, 579/580 – Lazica, 13 agosto 662) scrisse nel 630 a Cartagine la sua Mistagogia[1] che dedicò al senatore e presbitero Teocaristo, un parente dell’eparca d’Africa Giorgio e fratello dell’esarca d’Africa[2]. Il suo è il primo e il più importante testimone della liturgia eucaristica del suo tempo e la sua interpretazione mistagogica dei sacri riti taglia i ponti con quella delle catechesi mistagogiche di epoca patristica.

Rivolto ai monaci, il lavoro ha lo scopo di combinare la tradizione spirituale monastica con la mistica[3]. Massimo voleva mostrare l’importanza della liturgia per la vita monastica e correggere una tendenza che considerava poco importante per la pietà eucaristica. Questo trattato rimane una fonte importante per la conoscenza della comprensione bizantina della liturgia nel periodo immediatamente precedente a Germano.

Due sono state le tradizioni decisive nella formazione di Massimo come esegeta biblico: la tradizione alessandrina di Filone e Origene, per il tramite della meditazione dei Padri Cappadoci e dell’Areopagita e la tradizione monastica orientale che ha trattato la Sacra Scrittura come un tesoro di narrativa ascetica e di exempla, spesso agiografici e istruttivi per la vita cristiana. Massimo si riferisce in modo particolare alla Gerarchia ecclesiastica dello Pseudo-Dionigi da cui attinge sia la terminologia della sua dottrina che quella di altri autori neoplatonici come Procolo. Tuttavia a differenza dello Pseudo- Dionigi, Massimo vede rappresentata nella liturgia tutta la storia della salvezza, dall’incarnazione alle realtà ultime escatologiche. Il suo approccio, però, rimane essenzialmente alessandrino in quanto egli considera limitatamente gli eventi terreni della salvezza, sottolineando l’incarnazione di Cristo e allontanandosi virtualmente dal mistero pasquale.

L’approccio di Massimo alla liturgia è su due livelli: uno, che è definito “generale” (γενικώς) e l’altro, “particolare” (ἰδικῶς); per ogni parte della liturgia vengono offerte due spiegazioni: un significato generale che si riferisce al mistero della salvezza dell’intero cosmo e che ha alla base un metodo di interpretazione tipologico e un significato particolare che si riferisce ad ogni persona e che parte da un’interpretazione di natura anagogica. Possiamo vederlo fin dall’inizio del suo commento, quando descrive il simbolismo della costruzione di chiese. La chiesa è, innanzitutto, un’immagine dell’intero universo:

“Per quanto riguarda un secondo aspetto, era solito dire che la santa Chiesa di Dio è tipo e immagine del mondo tutto, costituito di sostanze visibili e invisibili, poiché contiene la stessa unione e diversità di Dio. Infatti come essa, pur essendo un solo edificio in relazione alla costruzione, ammette una diversità per una certa qualità della forma, in relazione alla posizione, distinguendosi a sua volta nel luogo riservato ai soli sacerdoti e ministri, che chiamiamo santuario, e in quello libero per l’accesso a tutti i laici fedeli, che chiamiamo tempio. […] E così anche tutto il mondo degli esseri, venuto da Dio quanto alla creazione, distinto in modo intellegibile, composto di essenze intellettuali e incorporee, e in questo mondo sensibile e corporeo e magnificamente intessuto di molte nature con forma sensibile, si rivela sapientemente per mezzo di questa – prodotta dall’uomo -, e avendo come santuario il mondo superiore, assegnato alle potenze superne, e come tempio il mondo di quaggiù, assegnato a coloro che hanno ottenuto in sorte il vivere soggetti alle sensazioni”[4].

Il significato particolare rende simbolico l’edificio della chiesa nell’individuo:

“E inoltre, secondo un altro modo di considerarla, diceva che la santa Chiesa di Dio è un uomo, avendo per anima il santuario, per intelligenza l’altare divino e per corpo il tempio, giacché è a immagine e somiglianza dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo del tempio come del corpo, propone la filosofia morale; per mezzo del santuario, come dell’anima, espone spiritualmente la contemplazione naturale e per mezzo dell’intelletto, l’altare divino, mostra la teologia mistica”[5].

In questa maniera l’autore procede anche alla descrizione della Divina Liturgia: il sacerdote che presiede la celebrazione eucaristica, che inizia con il suo ingresso in chiesa, in processione con i fedeli, sta a significare

“… la conversione degli infedeli dalla mancanza di fede alla fede e dall’ignoranza e dall’errore al riconoscimento di Dio il mutamento dei fedeli dalla malvagità e dall’ignoranza alla virtù e alla conoscenza. Infatti l’ingresso nella chiesa non solo dimostra la conversione degli infedeli verso il vero e unico Dio, ma anche la correzione per il tramite del pentimento di ciascuno di noi che, pur essendo fedeli, violiamo i sacramenti del Signore con la tendenza a una vita intemperante e sconveniente”[6].

Per Massimo, la venuta di Cristo nel mondo ha riavvicinato l’uomo a Dio, dunque la celebrazione dell’eucaristia è strettamente legata alla storia di Cristo e a quella della Chiesa nel suo cammino verso il Regno dei cieli; perciò l’entrata del vescovo e dell’assemblea nella Chiesa è tipo e immagine della prima venuta del Cristo. Il momento in cui il sacerdote entra nel santuario e si siede in cattedra augurando la pace all’assemblea, che risponde “Con il tuo spirito”, rappresenta simbolicamente l’ascensione di Cristo in paradiso. Segue la liturgia della Parola con la serie di letture, due dell’Antico Testamento e una dall’epistolario paolino. Ogni lettura è preceduta dall’augurio della pace e seguita da un canto.

Successivamente vi è il Piccolo ingresso:

“… il primo ingresso del sacerdote nella santa chiesa nel corso della santa sinassi è tipo e immagine della prima venuta del Figlio di Dio nella carne in questo mondo…”[7].

La lettura del Vangelo, la discesa del vescovo dal trono, l’espulsione dei penitenti e dei catecumeni simboleggiano la Seconda Venuta di Cristo e il giudizio finale,

“… significa il compimento di questo mondo. Infatti, dopo la divina lettura del santo Vangelo, il sacerdote scende dal trono e per mezzo dei ministri avviene la dimissione e l’espulsione dei catecumeni e degli altri impegni della divina contemplazione dei misteri che saranno mostrati, contemplazione che di per se stessa significa figura la verità, della quale è immagine e tipo…”[8].

“La chiusura delle porte della santa Chiesa di Dio, che avviene dopo la sacra lettura del santo Vangelo e il congedo dei catecumeni, mostra l’uscita delle cose materiali dopo quella terribile separazione e quella sentenza ancora più terribile, [raffigura inoltre] l’ingresso di coloro che ne sono degni nel mondo intelligibile, cioè nel talamo di Cristo, e la perdita completa, nei nostri sensi, dell’attività ingannatrice”[9].

Dopo la proclamazione del Vangelo, il vescovo scende dalla cattedra, pronuncia l’omelia e vengono congedati i catecumeni e quanti sono in penitenza; questo simboleggia le passioni che sono espulse dall’anima. Vengono chiuse le porte a significare la “chiusura del mondo visibile”:

“Perciò subito dopo questi riti, la sacra costituzione della santa Chiesa stabilisce la divina lettura del santo Vangelo – che spiega in particolare la sofferenza degli zelanti a causa del Verbo – dopo la quale il Logos, per così dire sommo sacerdote della contemplazione gnostica, venendo a loro dal cielo, distrugge il loro il pensiero della carne, come una sorta di mondo sensibile, allontanando inoltre i pensieri che fanno guardare a terra, come inchiodati ad essa, e riconducendoli di lì, per il tramite della chiusura delle porte ingresso dei santi misteri alla contemplazione delle cose intelligibili.”[10].

La liturgia dei catecumeni rappresenta il cammino che vede l’inizio e la crescita del regno di Dio nella Chiesa, fino alla completa realizzazione della seconda venuta e la conversione dell’anima e la sua entrata nella pratica delle virtù.

I fedeli che restano in chiesa entrano nel regno dei cieli con l’inizio della liturgia dei fedeli e con l’entrata dei santi e venerabili misteri. Questo rito ha una certa importanza perché si tratta del Grande ingresso.

I riti seguenti della liturgia eucaristica prefigurano la visione del mondo a venire: l’entrata delle offerte annuncia la manifestazione di una nuova economia; il bacio della pace simboleggia l’unione degli eletti con il Verbo; il simbolo di fede indica l’azione di grazie; la dossologia del Trisagion, l’unità di uomini e angeli nella lode a Dio; il Padre Nostro mostra la pienezza dell’adozione filiale; il canto Eis aghios (Uno solo è il Santo, uno solo il Signore) indica l’unione dei perfetti con la divinità, la comunione e la deifica­zione escatologica. I riti diventano un assaggio della vita, dopo la parusia, nel Regno[11].

La Mistagogia non ha alcun indizio che attesti una preparazione delle oblazioni, cioè dei doni eucaristici prima della sinassi; il loro ingresso è seguito dal bacio della pace e dalla recitazione del simbolo di fede. Senza riferimento all’anafora (la parte centrale della Divina Liturgia, dal prefazio alla solenne dossologia finale), la Mistagogia passa dal Santo al Padre Nostro.

I riti della comunione per Massimo sono il momento della trasformazione in Cristo di coloro che partecipano all’eucaristia, della deificazione donata con l’eucarestia impartita in Cristo e attraverso Cristo. Gesù trasforma il fedele in se stesso. In questo modo il credente giunge non alla contemplazione delle essenze noetiche, non alle illuminazioni trasmesse dalla gerarchia celeste, ma a Cristo stesso.

Massimo il Confessore vuole dimostrare in primis come, al di là dei riti, ma attraverso di essi, ogni fedele venga introdotto alle realtà ultime: la Chiesa introduce la venuta di Cristo all’interno del tempo e ne anticipa la piena realizzazione nella misura in cui i fedeli si lasciano prendere dal modo di esistere di Cristo al quale i misteri celebrati devono configurarsi[12].

[1] Cf. PG 91, 657-718; MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, a cura di Rosa Maria Parriello, Paoline 2016.

[2] Cf. C. BOUDIGNON, Maxime le Confesseur était-il constantinopolitain?, in B. Janssens, B. Roosen, and P. Van Deun, Philomathestatos, Studies in Greek Patristic and Byzantine Texts, presented to Jacques Noret, in Orientalia Lovaniensia Analecta 137, (2004), Leuven Peeters, 39-40.

[3] Cf. I. H. DALMAIS, Place de la Mystagogie de saint Maxime le Confesseur dans la théologie liturgique byzantine, in Studia Patristica V/3, Texte und Untersuchungen 80, Berlin 1962, 283.

[4] Capitolo II; MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, 159-161.

[5] Capitolo IV; Ibidem, 165.

[6] Capitolo IX; Ibidem, 199.

[7] Capitolo VIII; Ibidem, 195.

[8] Capitolo XIV; Ibidem, 207.

[9] Capitolo XV; Ibidem, 209.

[10] Capitolo XIII; Ibidem, 203-205.

[11] Cf. Capitoli XVI-XX; Ibidem, 209-215.

[12] Cf. I.-H. DALMAIS, Mystère liturgique et divinization dans la Mystagogie de saint Maxime le Confesseur, in Jacques Fontaine and Charles Kannengiesser, Epektasis, Mélanges patristiques offerts au Cardinal Jean Daniélou, Beauchesne Paris 1972, 60.

diac. Antonio Calisi


La mistagogia liturgica nelle Omelie di Teodoro di Mopsuestia e la tradizione antiochena

Mentre lo Pseudo-Dionigi e gli alessandrini sottolineano l’approccio anagogico, gli Antiocheni enfatizzano l’allegorico o tipologico. Nell’esegesi scritturale, i commentatori sottolineano la connessione degli eventi e delle persone nell’Antico Testamento che prefigurano Cristo. Applicato alla liturgia, questo metodo sottolinea la connessione dei riti con il Gesù storico. Quindi il battesimo è inteso come la rievocazione storica del battesimo di Gesù nel Giordano e in particolare della sua morte e risurrezione: l’eucaristia è vista come un memoriale non solo dell’ultima cena, ma dell’intero ministero terreno di Cristo, nonché una prefigurazione della liturgia celeste.

Questo approccio, visto per la prima volta negli scritti di Isidoro di Pelusio e Giovanni Crisostomo, è riepilogato da Teodoro di Mopsuestia (Antiochia di Siria, 350 circa – Mopsuestia, 428), nelle sue Omelie catechetiche, scritte nel 392-428[1].

Coevo di Giovanni Crisostomo, allievo di Diodoro di Tarso e del retore Libanio, Teodoro è uno dei principali rappresentanti della scuola esegetico-teologica antiochena tra il IV e il V secolo. Ordinato presbitero da Flaviano, vescovo di Antiochia verso il 383, viene consacrato nel 392 vescovo di Mopsuestia in Cilicia come subentrante di Olimpio. Teodoro muore nel 428.

Le 16 Omelie di Teodoro rappresentano le fonti più importanti per la ricostruzione dell’autentico suo pensiero teologico e per lo studio dell’iniziazione cristiana nell’ambiente antiocheno nel V secolo.

Le prime 10 Omelie sono indirizzate ai catecumeni, le altre 6, mistagogiche, sono dirette ai neofiti; in esse si spiega la preghiera del Padre nostro, la liturgia battesimale e l’eucaristia.

Secondo Teodoro, dopo la rinascita battesimale, il cristiano deve ricevere indispensabilmente l’eucaristia, alimento della grazia dello Spirito Santo che dona l’immortalità. Il battesimo e l’eucaristia sono due realtà indispensabili per il cristiano[2].

L’Eucaristia è il memoriale dell’unico ed eterno sacrificio di Gesù sulla croce per la salvezza dell’umanità e primizia dell’economia futura[3].

Il medesimo Spirito, che nel battesimo ha rigenerato a nuova vita, trasmuta il pane e il vino mediante l’epiclesi nel corpo e nel sangue di Gesù[4]. Per ricevere un così grande dono, le disposizioni interiori non possono che essere degne della filiazione ricevuta, frutto di penitenza e confessione dei peccati[5].

Questo mistero si realizza nel tempo e nello spazio, nella liturgia terrestre, nella Chiesa. In essa si attua lo scambio tra realtà visibili ed invisibili dove l’attenzione è focalizzata sul ministero terreno di Cristo, sugli eventi storici della sua vita che sono rievocati e resi presenti nei riti, così come sul sommo sacerdozio che Cristo ora esercita in cielo.

“Siccome, infatti, sono i segni delle realtà del cielo che compie nelle immagini, occorre che questo sacrificio ne sia anche la manifestazione; e il pontefice fa una specie di immagine della liturgia che (avviene) nel cielo, poiché non è stato possibile che noi fossimo sacerdoti, (noi) che compiamo il nostro ufficio al di fuori della Legge, se non avessimo l’immagine delle (realtà) celesti”[6].

“Noi tutti dunque, in ogni luogo, in ogni tempo e continuamente, celebriamo il memoriale di questo medesimo sacrificio, perché ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, commemoriamo la morte di nostro Signore finché egli venga. Ogni volta dunque che si compie la liturgia di questo temibile sacrificio, – che è manifestatamente una similitudine delle realtà celesti, che al suo compimento otteniamo il favore di prendere attraverso il mangiare e il bere in vista di partecipare veramente ai beni futuri, – occorre che ci rappresentiamo nella nostra coscienza, come fantasmi di chi è in cielo; con la fede, abbozziamo nella nostra intelligenza la visione delle realtà celesti, considerando che Cristo, che è in cielo, che è morto per noi, è risuscitato ed è salito al cielo, è lui stesso, ancora adesso, che è immolato per mezzo di queste figure, in modo che, considerando dai nostri occhi, con la fede, questi ricordi che si compiono ora, siamo condotti a vedere ancora che egli muore, risorge e sale al cielo, – cosa che un tempo è avvenuta per noi”[7].

In questo tipo di mistagogia allegorica, riti e oggetti iniziano ad assumere un significato specifico e dettagliato. Quanto segue, per esempio, è la descrizione di Teodoro della processione del Grande Ingresso, dove i doni vengono portati sull’altare:

“Per mezzo delle immagini, «dobbiamo vedere Cristo che ora è condotto, va verso la passione, e che, in un altro momento, è di nuovo, steso verso di noi sull’altare per essere immolato». Quando, infatti, nei vasi sacri, nelle patene e nei calici, esce l’oblazione che sta per essere presentata, devi pensare che, condotto verso la passione, esce Cristo nostro Signore. […] Occorre dunque che tu consideri che i diaconi (rappresentano) l’immagine delle “potenze invisibili al servizio”, ora che portano dal di fuori la briciola per l’oblazione; (tranne che) per il loro ministero soltanto inviano Cristo nostro Signore verso la passione vivificante, per mezzo di queste commemorazioni. E quando l’hanno portata, la poggiano sul santo altare per il perfetto compimento della passione. In questo modo crediamo che ormai in una sorta di tomba (Cristo) è posto sull’altare e ha già subito la passione. «Per questo motivo alcuni diaconi che stendono le tovaglie sull’altare, presentano così la similitudine dei lini della sepoltura; e coloro che», quando è stato già deposto, «si tengono dai due lati e agitano l’aria che sta al di sopra del corpo sacro» e lo custodiscono perché nulla vada su di lui. Anch’essi per mezzo di quest’apparato mostrano la grandezza del corpo deposto, – poiché è abitudine tra i grandi di questo mondo anche, quando su un letto (di lutto) è accompagnato il corpo di uno dei loro morti, come per onorarlo gli altri lo ventilano. Occorre che questo abbia luogo ora che il corpo sacro, temibile, e che non è suscettibile di alcuna corruzione, si offre per essere deposto; occorre che lui, che non risuscita dopo un intervallo di tempo ad una natura immortale, da tutti i lati, davanti a lui, coloro che sono preposti a quest’ufficio lo ventilano, gli rendano l’onore opportuno, e, con quest’azione, mostrino a tutti i presenti la grandezza del corpo sacro che è stato deposto”[8].

Questa parte della liturgia viene interpretata come rappresentante della passione e del corteo funebre di Cristo, e questo tema è continuato nella descrizione della preghiera eucaristica che culmina con l’epiclesis, l’invocazione dello Spirito Santo:

“Tutti dunque, per mezzo di questi ricordi, con questi simboli e segni che furono compiuti, come da Cristo nostro Signore risorto dai morti ci avviciniamo con soavità e grande gioia; e secondo il nostro potere, lo stringiamo soavemente, perché vediamo che è risorto dai morti, anche perché speriamo di arrivare a partecipare alla resurrezione; – poiché, anche lui, come in una specie di tomba, risuscitò dal santo altare dai morti, secondo l’immagine che si è compiuta; si avvicinò a noi con la sua apparizione, e con la comunione con lui annuncia a tutti la resurrezione. Anche se viene da tutti noi dividendo se stesso, è intero in ogni parte e vicino a tutti noi; si consegna a ciascuno di noi, perché lo prendiamo e lo abbracciamo con tutta la nostra capacità e che mostriamo il nostro amore verso di lui secondo ciascuno. Così veramente il corpo e il sangue di nostro Signore ci nutrono e ci fanno attendere di essere trasformati in una natura immortale e incorruttibile”[9].

Quindi l’intera liturgia diventa una drammatica rievocazione della passione di Cristo, qualcosa che era di scarsa preoccupazione per gli alessandrini. Qui vediamo l’uomo Cristo che, ora risorto, serve come nostro Sommo Sacerdote davanti al trono di Dio, ma che è ancora uomo.

Dobbiamo cercare a Gerusalemme lo sviluppo di questo sistema storicizzante del simbolismo liturgico, che dipende chiaramente da un metodo esegetico antiocheno. Nel IV secolo, Gerusalemme divenne un centro di pellegrinaggio e Costantino iniziò una massiccia campagna di costruzione per erigere monumenti alla nuova religione dell’Impero romano. Così chiese, basiliche e martiria furono costruite sui siti dei principali eventi del ministero terreno di Cristo. La liturgia che si sviluppò qui in quel momento era formata da stazioni: la Grande e Santa Settimana, per esempio, era composta da una serie di processioni verso i vari luoghi santi, con letture appropriate per segnare gli eventi drammatici della passione di Cristo. La migliore descrizione viene da Egèria (IV-V secolo), autrice di un Itinerarium in cui la donna racconta il suo viaggio nei luoghi santi che visitò a Gerusalemme tra il 381 e il 384. Di seguito è riportata una descrizione di alcuni dei servizi del Venerdì Santo:

“Così, quando incomincia il canto dei galli, si ridiscende dall’Imbomon con inni e si giunge proprio nel luogo in cui pregò il Signore, come è scritto nel Vangelo: E avanzò tanto quanto un tiro di sasso e pregò, con quello che segue. Ivi sorge una bella chiesa. Il vescovo vi entra insieme a tutto il popolo: viene fatta una preghiera intonata al luogo e al giorno, si dice anche un inno appropriato e viene letto il brano del Vangelo dove il Signore dice i suoi discepoli: Vegliate per non entrare in tentazione. Il passo è letto per intero, poi nuovamente si fa un’orazione.

Di là poi, con inni, tutti fino al bambino più piccolo, insieme al vescovo, discendono a piedi dal Getsemani. Essendo le persone in grande numero e stanche per le veglie e indebolite dai digiuni quotidiani, dato che si deve discendere da un monte tanto grande, si va al Getsemani adagio adagio, con inni. Più di 200 ceri di chiesa sono disposti in modo da rischiarare tutta la folla.

Giunti al Getsemani, da prima si fa un’orazione appropriata, si dice un inno, poi si legge il passo del Vangelo là dove si racconta della cattura del Signore. Alla lettura di questo passo tante sono le grida, tanti i gemiti del popolo in pianto che i lamenti della moltitudine giungono fino a quasi alla città…”[10].

La chiesa dimostra, nella struttura liturgica, che la storia della salvezza continua nel tempo anche nei singoli riti. Il battesimo, come possiamo vedere dalle orazioni catechetiche di Giovanni di Gerusalemme, iniziò ad essere interpretato principalmente come una rievocazione della morte e risurrezione di Cristo, sulla base del testo di Romani 6:

“vi siete immersi tre volte nell’acqua e di nuovo ne siete emersi e là significavate simbolicamente la sepoltura di tre giorni del Cristo. Come infatti il Salvatore nostro trascorse allora tre giorni e tre notti nel cuore della terra, così anche voi con la prima emersione avete imitato il primo giorno del Signore sulla terra e con l’immersione la notte… E in uno stesso momento siete morti e siete rinati; anche quell’acqua salutare fu per voi e tomba e madre…[11].

Il tema del battesimo come partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo non è ovviamente nuovo, ma la rinnovata enfasi su di esso in questo momento, e in particolare il nuovo modo in cui è espresso, è il risultato diretto di questa nuova tendenza. Da questa applicazione al rito battesimale, il passo è breve verso una siffatta tipologia di eucaristia.

Anche da Gerusalemme proviene un rito topografico del simbolismo liturgico che troviamo descritto nel testo di Egèria; l’autrice racconta come ai vespri quotidiani celebrati nella chiesa del Santo Sepolcro, chiamati Lychnicon, parola greca corrispondente a Lucernarium, all’ora decima, cioè alle 16, avveniva l’accensione delle luci nel santuario e venivano cantati i salmi lucernali; dopodiché seguivano preghiere, litanie e benedizioni.

“Tutta la gente si raduna come le altre volte all’Anastasis: si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una grandissima luce. La luce non viene portata dal di fuori, ma è tratta dall’interno della grotta, dove notte e giorno, ininterrottamente, risplende una lampada posta dietro i cancelli…”[12].

Questo rito è presente nella liturgia bizantina detta Proiasmena dei Doni Presantificati, dove il sacerdote, attraversate le Porte Sante, benedice il popolo con un segno di croce fatto con la candela e l’incensiere dicendo: “La luce di Cristo appare a tutti”. Anche l’illuminazione delle candele di Pasqua deriva dallo stesso simbolismo: il Cristo risorto, la luce del mondo, emerge dalla tomba. Anche qui il passo è breve per il simbolismo topologico:

“Ciò che fu diffuso sulla mappa della storia santa di Gerusalemme venne scritto in piccolo nelle chiese più umili della cristianità orientale… Così l’abside del santuario diventa la grotta del sepolcro e l’altare la tomba da cui la salvezza è venuta al mondo… La sua applicazione all’eucaristia era così congrua da essere inevitabile. Il passo successivo, o forse concomitante, poiché la sequenza evolutiva non è poi così chiara, è stato il simbolismo del corteo funerario al trasferimento e alla deposizione dei doni”[13].

[1] Cf. F. PLACIDA, Le omelie battesimali e mistagogiche di Teodoro di Mopsuestia, Coop. San Tommaso – Elledici, Torino 2008.

[2] Cf. Omelia XV, 4; Ibidem, 192-193.

[3] Cf. Omelia XV, 15; Ibidem, 198-199.

[4] Cf. Omelia XVI, 12; Ibidem, 219-220.

[5] Cf. Omelia XVI, 31; 44; Ibidem, 228-229; 235.

[6] Omelia XV, 15; Ibidem, 198.

[7] Omelia XV, 20; Ibidem, 202.

[8] Omelia XV, 25-26; Ibidem, 204-205.

[9] Omelia XVI, 26; Ibidem, 226.

[10] EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, traduzione, introduzione e note a cura di Paolo Siniscalco e Lella Scarampi, Città Nuova editrice, Roma 1985, 161-162.

[11] CIRILLO E GIOVANNI DI GERUSALEMME, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, traduzione di Gabriella Maestri e Victor Saxer, introduzione e note di Victor Saxer, Paoline, Milano 1994, 593.

[12] EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, 132.

[13] TAFT, The Liturgy of the Great Church: an Initial Synthesis of Structure and Interpretation on the Eve of Iconoclasm, in Dumbarton Oaks Papers 34-35 (1980-1981), 66.

diac. Antonio Calisi


La mistagogia liturgica nella Gerarchia ecclesiastica dello Pseudo-DionigiI l’Areopagita e la tradizione alessandrina

Il commento dello Pseudo-Dionigi sulla liturgia è contenuto nella De ecclesiastica hierarchia[1]. Questo lavoro si compone di sette capitoli ed è stato scritto probabilmente alla fine del V secolo; egli disegna una visione gerarchica della realtà, specificamente neoplatonica, in cui la realtà e la conoscenza discendono dal principio sommo della creazione, Dio, tramite le intelligenze angeliche, sino ai gradi infimi della materia. Tale gerarchia si riflette nell’ordinamento piramidale della Chiesa e nella sua liturgia.

Ciascun capitolo, dal II al VII, appare diviso in due parti: mentre la prima descrive dettagliatamente la funzione liturgica relativa ad un determinato sacramento o le caratteristiche prerogative dei singoli ordini gerarchici, analoghe a quelle degli ordini angelici, la seconda, intitolata Theorìa, illustra il recondito senso spirituale nascosto nella cerimonia liturgica appena descritta.

Tutti i riti liturgici e gli stessi sacramenti sono caratterizzati da una moltitudine di immagini e di simboli sensibili che velano le verità più alte. Partendo da questa simbologia, chi vuole progredire deve elevarsi alle verità nascoste adottando il metodo “anagogico”, basato sull’interpretazione allegorica o spirituale dei simboli stessi:

“I sacri simboli sensibili sono immagini delle realtà intelligibili e la guida e la strada <che conducono> ad esse, mentre le realtà intellegibili sono il principio e la base scientifica dei simboli sensibili di cui fa uso la gerarchia”[2].

La realtà, quindi, è spirituale e i simboli materiali sono solo i mezzi con cui viene comunicata. Quindi il mondo materiale ha valore solo nella misura in cui è simbolico, cioè solo nella misura in cui è in grado di comunicare per rivelare le realtà spirituali. Il simbolo diventa così un mezzo di ascesa spirituale:

“… la nostra gerarchia invece, conformemente alle nostre capacità, la vediamo moltiplicata nella varietà dei simboli sensibili, dai quali veniamo elevati per via gerarchica alla deificazione simile all’uno secondo la misura adatta a noi”[3].

Un chiaro esempio di metodo “anagogico” in chiave neoplatonica è rappresentato dal modo in cui viene interpretata la distribuzione della comunione: la suddivisione tra molte persone dell’unico pane e del vino contenuto nell’unico calice è il simbolo, da una parte, del frazionamento che caratterizza la processione dell’energia divina dall’unità della fonte originaria senza che quest’ultima subisca alterazioni, dall’altra, della processione dell’unico, semplice e “arcano” Logos verso la composita natura umana.

“A coloro che agiscono santamente il vescovo rivela tutto questo, mettendo in mostra i doni nascosti, dividendo in molte parti la loro unità e facendo entrare in comunione con essi coloro che li ricevono grazie alla perfetta unione dei doni distribuiti con le persone in cui essi entrano. Egli rappresenta così in modo sensibile, come in immagini, la nostra vita <spirituale>, e ci fa vedere Gesù Cristo mentre riceve, per amor nostro, una forma da noi, diventando completamente, da quel Dio nascosto che era, un uomo come noi pur senza confondersi <con noi>, mentre procede dall’unità a lui connaturata verso i nostri particolarismi senza alterarsi e mentre chiama il genere umano alla partecipazione di se stesso e dei propri beni grazie a questo suo benefico amore; se veramente ci uniremo alla sua divinissima vita cercando secondo le nostre possibilità di renderci simile ad essa, anche in tal modo diverremo veramente partecipi di Dio e dei beni divini.”[4].

Dunque, per lo Pseudo-Dionigi, la liturgia è un’allegoria del progresso dell’anima dalla divisione del peccato alla comunione divina, attraverso un processo di purificazione, illuminazione, perfezione, ripreso nei riti.

La liturgia non è qualcosa inventato da noi per fare un’esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, si dilata unendosi con il linguaggio di tutte le creature. Non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin, un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica.

L’intera liturgia è quindi percepita come un’ascesa dal materiale allo spirituale, dalla molteplicità dell’esistenza inferiore all’unità del divino. L’intera enarxis e la Liturgia della Parola sono viste come una preparazione spirituale, una purificazione, la rimozione dell’impuro (catecumeni e penitenti) e di tutti i pensieri e le passioni materiali.

Le affinità dello Pseudo-Dionigi con Origene e con la tradizione alessandrina sono evidenti. Troviamo l’attenzione tipicamente alessandrina alla divinità di Cristo, con la conseguente difficoltà nell’esprimere il ministero terreno di Cristo, la sua morte e risurrezione. L’atto salvifico essenziale consiste nella sola incarnazione, che è la fonte della nostra unione con Dio, resa possibile dalla nostra partecipazione alla liturgia. La deificazione si ottiene attraverso l’imitazione etica della perfezione del Logos incarnato. Il Gesù storico, sebbene non negato, sfuma sullo sfondo. Il risultato di questo approccio è una cristologia e una soteriologia squilibrata, nonché una visione squilibrata della liturgia, poiché si presta poca attenzione a ciò che la stessa liturgia ha da dire nei suoi testi e riti, imponendo su di essa presupposti filosofici. Facendo propria la teoria plotiniana di Dio che, per la sua infinità è al di sopra dell’essere e di ogni realtà comprensibile nelle categorie della ragione discorsiva, l’autore dice che l’atto più sacro della liturgia è la frazione:

“Dopo aver scoperto e diviso molte parti il pane <ancora> velato indiviso, e dopo aver diviso simbolicamente tra tutti l’unico calice, moltiplica e distribuisce l’unità <originaria> compiendo così un santissimo atto sacro”[5].

Lo pseudo Dionigi applica quindi alla liturgia lo stesso metodo che si usa nell’interpretazione della Sacra Scrittura e che ha ereditato da Filone e dai padri alessandrini e Cappadoci, cioè il considerare un insieme di alte verità teologiche coperte da veli (utilizza il termine tecnico παραπετασμάτων parapetasmàton usato da Proclo Licio Diadoco per indicare i “veli” che celano le verità più alte), da simboli e da immagini; tale metodo ha anche un preciso parallelo in quanto Proclo dice sulla mitologia e la religione greca che sono anch’esse velate da simboli allegorici; e studi abbastanza recenti hanno mostrato come l’adozione del metodo “anagogico” abbia un chiaro precedente in Giamblico di Calcide[6].

 

[1] Testo greco in PG 3, 369-485; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, introduzione, traduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Città Nuova, Roma 2002.

[2] Capitolo II, 3, 2; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 60.

[3] Capitolo I, 2; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 47.

[4] Capitolo III, 3, 13; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 94-95.

[5] Capitolo III, 3, 12; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 93.

[6] Cf. S. LILLA, Introduzione allo studio dello ps. Dionigi L’Areopagita, in Augustinianum 22 (1982), 559-560; P. ROREM, Iamblichus and the Anagogical Method in Pseudo-Dionysian Liturgical Theology, in Studia Patristica XVII, 1, Oxford 1982, 453-460.

diac. Antonio Calisi


Il genere letterario del commento liturgico

Il termine mystagogia è composto dal verbo myeo e dal sostantivo agoge: il verbo myeo significa “iniziare ai misteri” e richiama l’insegnamento di una dottrina nascosta che concerne le realtà sacre; il sostantivo agage mostra l’atto di accompagnare qualcuno da o in un luogo. Congiunto al verbo myeo significa guidare qualcuno a contemplare le realtà sacre, iniziare alle cose nascoste, ai misteri. La mistagogia è allora l’azione di colui che conduce un altro alle realtà sacre. Nella religione greca, mystagogia designava il rito con il quale il sacerdote iniziava ai misteri, ma anche alla conoscenza mistica o misterica; anche nel cristianesimo prende i due significati: l’azione sacra, in particolare la celebrazione dei sacramenti d’iniziazione, battesimo, crismazione ed eucaristia e la spiegazione teologica e simbolica degli stessi.

Il Commento liturgico ha le sue origini nel IV secolo, con le famose catechesi mistagogiche di personaggi di rilievo come Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio di Milano e Giovanni Crisostomo di Costantinopoli. Il loro scopo era quello di accompagnare nella conoscenza, attraverso la testimonianza della propria fede nella vita reale di tutti i giorni, il cristiano che aveva già ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana, aiutandolo ad avvicinarsi al Mistero Pasquale di Cristo Risorto attraverso la comprensione e la pratica dei riti liturgici.

Questo corpus di scritti risponde ad un cambiamento nella pietà cristiana che ha creato la necessità pastorale di sviluppare una diversa logica della comprensione della liturgia, principalmente a partire dal declino della comunione frequente, risultato di fattori sociali dopo la trasformazione da minoranza perseguitata a religione tollerata dallo Stato (Pace di Costantino del 313).

L’afflusso massiccio di nuovi membri nella Chiesa portò molti ad aderire alla fede cristiana più per opportunità che spinti da conversione sincera. Ulteriormente, molti apostati, che avevano lasciato la fede durante i periodi di persecuzione, erano tornati e dovevano sottostare ad un lungo periodo di penitenza durante il quale erano esclusi dal banchetto eucaristico. Inoltre, numerose persone rimandavano il battesimo rimanendo iscritti per molti anni tra i catecumeni. Il risultato di tutto ciò fu una frattura nella comunità tra una minoranza comunicante e una maggioranza che era in chiesa solo come osservatore. All’inizio del cristianesimo, questi ultimi erano licenziati prima dell’anafora eucaristica, ma in seguito fu loro permesso di rimanere alla Divina Liturgia. Nello stesso periodo si sviluppò, inoltre, una sorta di spiritualità che mostrava paura e timore reverenziale nei confronti dell’eucaristia, incoraggiando la fuga dal banchetto eucaristico, specialmente tra quelli la cui conversione era solo nominale.

Originariamente solo in forma orale, pronunciate come omelie durante l’ottava di Pasqua, le catechesi mistagogiche furono presto scritte e ampiamente distribuite e divennero popolari e subito utili; l’iniziale afflusso di convertiti assicurò la sopravvivenza di questo tipo di letteratura istruttiva, poiché costituiva un prezioso strumento di insegnamento. In breve, il commento risultò essere uno strumento didattico molto utile per far comprendere ai suoi destinatari il significato di ciò che era già vissuto durante la liturgia.

Ogni interpretazione del rituale liturgico discende da un simbolismo definito non arbitrariamente, ma dalla Tradizione che ha origine nella Sacra Scrittura. Per gli antichi scrittori cristiani, le Sacre Scritture, dietro l’avvenimento storico, nascondono una verità più profonda. La tradizione cristiana identificava già nelle parole di Gesù: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza” (Gv 5,39) e nel Vangelo di Luca “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27), il principio per il quale le Scritture esprimono due sensi, uno letterale e uno spirituale: l’Antico Testamento ha un reale significato solo in relazione al Nuovo. In generale, gli scrittori della scuola antiochena hanno sottolineato, nella liturgia, la storia della salvezza operata da Cristo durante il suo ministero terreno e la sua umanità, interpretando in quest’ottica il simbolismo liturgico dei riti stessi, mentre gli autori della scuola teologica di Alessandria d’Egitto (Didaskaleion gr. Διδασκαλεῖον), grazie a Origene, avevano un approccio anagogico, più spiritualizzante, avendo sviluppato una specie di gnoseologia cristiana, molto più mistica ed individualistica, popolare soprattutto nei circoli monastici.

I mistagoghi, quindi, hanno trovato un metodo pronto per i loro commenti nella lunga tradizione dell’esegesi biblica, perché già nel Nuovo Testamento, le Sacre Scritture erano viste come portatrici di un significato sia letterale, cioè di spiegazione delle informazioni storiche, linguistiche e geografiche, che spirituale.

Nel IV secolo, il significato spirituale era stato ulteriormente suddiviso in tre livelli:

  1. Il livello allegorico, metodo già conosciuto e usato dai grammatici greco-latini, che si basa sul principio ciceroniano dell’alium dicitur et alium intellegitur (il testo dice una cosa ma ne vuole significare un’altra), approfondisce quello in cui si crede, interpretando l’Antico Testamento alla luce del Nuovo in riferimento a Cristo e alla Chiesa;
  2. Il livello morale o tropologico indica come ci si debba comportare nella nostra vita cristiana;
  3. Il livello anagogico, che è relativo alle realtà eterne, nascoste alla vista degli uomini, ci collega al compimento finale nel Regno e alla nostra attuale contemplazione di questa realtà celeste futura.

Era quindi naturale per i mistagoghi applicare questo metodo alle parole e alle azioni della liturgia. Comprendevano la liturgia come le Sacre Scritture, come un canale che conduce a Dio, un mezzo per sperimentare la vita divina qui e ora; la liturgia eucaristica diviene una prefigurazione dell’adempimento finale, il banchetto del Regno; il battesimo è già la vittoria sulla morte e il passaggio alla vita redenta.

Questo metodo è stato utilizzato da tutti gli autori patristici, ognuno tendendo a sottolineare l’uno o l’altro livello, a seconda dei suoi presupposti storico-sociali e obiettivi teologici, senza la comprensione dei quali è chiaramente difficile intendere correttamente i commenti liturgici.

In epoca bizantina si ha un’esplosione dei commentari mistagogici, ma, a differenza delle catechesi, il commentario mistagogico è destinato sia al clero che ai laici e non si limita ai sacramenti di iniziazione, ma si estende a tutti i riti. Il commentario vuole educare il clero al corretto compimento delle funzioni che è chiamato ad adempiere ed è rivolto ai fedeli per permettere la comprensione dei misteri ai quali sono invitati a prendere parte. Tutti questi commentari presuppongono, da un lato, che i riti e testi liturgici si siano stabilizzati e, dall’altro, che l’azione cultuale non sia più compresa in sé ma necessiti della decifrazione di un simbolismo che si sviluppa in parallelo alla partecipazione attiva dei fedeli all’opera di Dio operante nella liturgia medesima. I commentari mistagogici hanno un contatto assai stretto con il testo liturgico, dunque sono testimoni privilegiati dell’evoluzione dei riti. L’epoca tra il VI e XV secolo non è del resto per la liturgia bizantina un periodo di formazione, ma di fissazione.

Occorre tenere presente che i dibattiti teologici del periodo, principalmente il conflitto con l’arianesimo e le controversie cristologiche che seguirono, hanno avuto anche un forte impatto sulla liturgia e sulle spiegazioni liturgiche. Ad esempio la formula dossologica “Gloria al Padre, attraverso il Figlio, nello Spirito Santo” è stata armonizzata in risposta all’arianesimo che sosteneva il subordinazionismo, nella sua forma attuale: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Nel VI secolo, l’aggiunta alla liturgia bizantina del Tropario Ho Monogenes (Ὁ Μονογενὴς “Figlio unigenito”) e del Credo venne anche in reazione alle presenti controversie teologiche.

La chiave, dunque, per una corretta comprensione delle mistagogie è conoscere il loro contesto storico poiché i commentatori scrivevano in risposta a problemi sociali e teologici concreti, e solo quando i problemi sono noti le risposte sono comprensibili. Se estratti da questo contesto, i commenti perdono molto del loro significato e possono in effetti diventare fuorvianti.

diac. Antonio Calisi