La mistagogia liturgica nelle Omelie di Teodoro di Mopsuestia e la tradizione antiochena

Mentre lo Pseudo-Dionigi e gli alessandrini sottolineano l’approccio anagogico, gli Antiocheni enfatizzano l’allegorico o tipologico. Nell’esegesi scritturale, i commentatori sottolineano la connessione degli eventi e delle persone nell’Antico Testamento che prefigurano Cristo. Applicato alla liturgia, questo metodo sottolinea la connessione dei riti con il Gesù storico. Quindi il battesimo è inteso come la rievocazione storica del battesimo di Gesù nel Giordano e in particolare della sua morte e risurrezione: l’eucaristia è vista come un memoriale non solo dell’ultima cena, ma dell’intero ministero terreno di Cristo, nonché una prefigurazione della liturgia celeste.

Questo approccio, visto per la prima volta negli scritti di Isidoro di Pelusio e Giovanni Crisostomo, è riepilogato da Teodoro di Mopsuestia (Antiochia di Siria, 350 circa – Mopsuestia, 428), nelle sue Omelie catechetiche, scritte nel 392-428[1].

Coevo di Giovanni Crisostomo, allievo di Diodoro di Tarso e del retore Libanio, Teodoro è uno dei principali rappresentanti della scuola esegetico-teologica antiochena tra il IV e il V secolo. Ordinato presbitero da Flaviano, vescovo di Antiochia verso il 383, viene consacrato nel 392 vescovo di Mopsuestia in Cilicia come subentrante di Olimpio. Teodoro muore nel 428.

Le 16 Omelie di Teodoro rappresentano le fonti più importanti per la ricostruzione dell’autentico suo pensiero teologico e per lo studio dell’iniziazione cristiana nell’ambiente antiocheno nel V secolo.

Le prime 10 Omelie sono indirizzate ai catecumeni, le altre 6, mistagogiche, sono dirette ai neofiti; in esse si spiega la preghiera del Padre nostro, la liturgia battesimale e l’eucaristia.

Secondo Teodoro, dopo la rinascita battesimale, il cristiano deve ricevere indispensabilmente l’eucaristia, alimento della grazia dello Spirito Santo che dona l’immortalità. Il battesimo e l’eucaristia sono due realtà indispensabili per il cristiano[2].

L’Eucaristia è il memoriale dell’unico ed eterno sacrificio di Gesù sulla croce per la salvezza dell’umanità e primizia dell’economia futura[3].

Il medesimo Spirito, che nel battesimo ha rigenerato a nuova vita, trasmuta il pane e il vino mediante l’epiclesi nel corpo e nel sangue di Gesù[4]. Per ricevere un così grande dono, le disposizioni interiori non possono che essere degne della filiazione ricevuta, frutto di penitenza e confessione dei peccati[5].

Questo mistero si realizza nel tempo e nello spazio, nella liturgia terrestre, nella Chiesa. In essa si attua lo scambio tra realtà visibili ed invisibili dove l’attenzione è focalizzata sul ministero terreno di Cristo, sugli eventi storici della sua vita che sono rievocati e resi presenti nei riti, così come sul sommo sacerdozio che Cristo ora esercita in cielo.

“Siccome, infatti, sono i segni delle realtà del cielo che compie nelle immagini, occorre che questo sacrificio ne sia anche la manifestazione; e il pontefice fa una specie di immagine della liturgia che (avviene) nel cielo, poiché non è stato possibile che noi fossimo sacerdoti, (noi) che compiamo il nostro ufficio al di fuori della Legge, se non avessimo l’immagine delle (realtà) celesti”[6].

“Noi tutti dunque, in ogni luogo, in ogni tempo e continuamente, celebriamo il memoriale di questo medesimo sacrificio, perché ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, commemoriamo la morte di nostro Signore finché egli venga. Ogni volta dunque che si compie la liturgia di questo temibile sacrificio, – che è manifestatamente una similitudine delle realtà celesti, che al suo compimento otteniamo il favore di prendere attraverso il mangiare e il bere in vista di partecipare veramente ai beni futuri, – occorre che ci rappresentiamo nella nostra coscienza, come fantasmi di chi è in cielo; con la fede, abbozziamo nella nostra intelligenza la visione delle realtà celesti, considerando che Cristo, che è in cielo, che è morto per noi, è risuscitato ed è salito al cielo, è lui stesso, ancora adesso, che è immolato per mezzo di queste figure, in modo che, considerando dai nostri occhi, con la fede, questi ricordi che si compiono ora, siamo condotti a vedere ancora che egli muore, risorge e sale al cielo, – cosa che un tempo è avvenuta per noi”[7].

In questo tipo di mistagogia allegorica, riti e oggetti iniziano ad assumere un significato specifico e dettagliato. Quanto segue, per esempio, è la descrizione di Teodoro della processione del Grande Ingresso, dove i doni vengono portati sull’altare:

“Per mezzo delle immagini, «dobbiamo vedere Cristo che ora è condotto, va verso la passione, e che, in un altro momento, è di nuovo, steso verso di noi sull’altare per essere immolato». Quando, infatti, nei vasi sacri, nelle patene e nei calici, esce l’oblazione che sta per essere presentata, devi pensare che, condotto verso la passione, esce Cristo nostro Signore. […] Occorre dunque che tu consideri che i diaconi (rappresentano) l’immagine delle “potenze invisibili al servizio”, ora che portano dal di fuori la briciola per l’oblazione; (tranne che) per il loro ministero soltanto inviano Cristo nostro Signore verso la passione vivificante, per mezzo di queste commemorazioni. E quando l’hanno portata, la poggiano sul santo altare per il perfetto compimento della passione. In questo modo crediamo che ormai in una sorta di tomba (Cristo) è posto sull’altare e ha già subito la passione. «Per questo motivo alcuni diaconi che stendono le tovaglie sull’altare, presentano così la similitudine dei lini della sepoltura; e coloro che», quando è stato già deposto, «si tengono dai due lati e agitano l’aria che sta al di sopra del corpo sacro» e lo custodiscono perché nulla vada su di lui. Anch’essi per mezzo di quest’apparato mostrano la grandezza del corpo deposto, – poiché è abitudine tra i grandi di questo mondo anche, quando su un letto (di lutto) è accompagnato il corpo di uno dei loro morti, come per onorarlo gli altri lo ventilano. Occorre che questo abbia luogo ora che il corpo sacro, temibile, e che non è suscettibile di alcuna corruzione, si offre per essere deposto; occorre che lui, che non risuscita dopo un intervallo di tempo ad una natura immortale, da tutti i lati, davanti a lui, coloro che sono preposti a quest’ufficio lo ventilano, gli rendano l’onore opportuno, e, con quest’azione, mostrino a tutti i presenti la grandezza del corpo sacro che è stato deposto”[8].

Questa parte della liturgia viene interpretata come rappresentante della passione e del corteo funebre di Cristo, e questo tema è continuato nella descrizione della preghiera eucaristica che culmina con l’epiclesis, l’invocazione dello Spirito Santo:

“Tutti dunque, per mezzo di questi ricordi, con questi simboli e segni che furono compiuti, come da Cristo nostro Signore risorto dai morti ci avviciniamo con soavità e grande gioia; e secondo il nostro potere, lo stringiamo soavemente, perché vediamo che è risorto dai morti, anche perché speriamo di arrivare a partecipare alla resurrezione; – poiché, anche lui, come in una specie di tomba, risuscitò dal santo altare dai morti, secondo l’immagine che si è compiuta; si avvicinò a noi con la sua apparizione, e con la comunione con lui annuncia a tutti la resurrezione. Anche se viene da tutti noi dividendo se stesso, è intero in ogni parte e vicino a tutti noi; si consegna a ciascuno di noi, perché lo prendiamo e lo abbracciamo con tutta la nostra capacità e che mostriamo il nostro amore verso di lui secondo ciascuno. Così veramente il corpo e il sangue di nostro Signore ci nutrono e ci fanno attendere di essere trasformati in una natura immortale e incorruttibile”[9].

Quindi l’intera liturgia diventa una drammatica rievocazione della passione di Cristo, qualcosa che era di scarsa preoccupazione per gli alessandrini. Qui vediamo l’uomo Cristo che, ora risorto, serve come nostro Sommo Sacerdote davanti al trono di Dio, ma che è ancora uomo.

Dobbiamo cercare a Gerusalemme lo sviluppo di questo sistema storicizzante del simbolismo liturgico, che dipende chiaramente da un metodo esegetico antiocheno. Nel IV secolo, Gerusalemme divenne un centro di pellegrinaggio e Costantino iniziò una massiccia campagna di costruzione per erigere monumenti alla nuova religione dell’Impero romano. Così chiese, basiliche e martiria furono costruite sui siti dei principali eventi del ministero terreno di Cristo. La liturgia che si sviluppò qui in quel momento era formata da stazioni: la Grande e Santa Settimana, per esempio, era composta da una serie di processioni verso i vari luoghi santi, con letture appropriate per segnare gli eventi drammatici della passione di Cristo. La migliore descrizione viene da Egèria (IV-V secolo), autrice di un Itinerarium in cui la donna racconta il suo viaggio nei luoghi santi che visitò a Gerusalemme tra il 381 e il 384. Di seguito è riportata una descrizione di alcuni dei servizi del Venerdì Santo:

“Così, quando incomincia il canto dei galli, si ridiscende dall’Imbomon con inni e si giunge proprio nel luogo in cui pregò il Signore, come è scritto nel Vangelo: E avanzò tanto quanto un tiro di sasso e pregò, con quello che segue. Ivi sorge una bella chiesa. Il vescovo vi entra insieme a tutto il popolo: viene fatta una preghiera intonata al luogo e al giorno, si dice anche un inno appropriato e viene letto il brano del Vangelo dove il Signore dice i suoi discepoli: Vegliate per non entrare in tentazione. Il passo è letto per intero, poi nuovamente si fa un’orazione.

Di là poi, con inni, tutti fino al bambino più piccolo, insieme al vescovo, discendono a piedi dal Getsemani. Essendo le persone in grande numero e stanche per le veglie e indebolite dai digiuni quotidiani, dato che si deve discendere da un monte tanto grande, si va al Getsemani adagio adagio, con inni. Più di 200 ceri di chiesa sono disposti in modo da rischiarare tutta la folla.

Giunti al Getsemani, da prima si fa un’orazione appropriata, si dice un inno, poi si legge il passo del Vangelo là dove si racconta della cattura del Signore. Alla lettura di questo passo tante sono le grida, tanti i gemiti del popolo in pianto che i lamenti della moltitudine giungono fino a quasi alla città…”[10].

La chiesa dimostra, nella struttura liturgica, che la storia della salvezza continua nel tempo anche nei singoli riti. Il battesimo, come possiamo vedere dalle orazioni catechetiche di Giovanni di Gerusalemme, iniziò ad essere interpretato principalmente come una rievocazione della morte e risurrezione di Cristo, sulla base del testo di Romani 6:

“vi siete immersi tre volte nell’acqua e di nuovo ne siete emersi e là significavate simbolicamente la sepoltura di tre giorni del Cristo. Come infatti il Salvatore nostro trascorse allora tre giorni e tre notti nel cuore della terra, così anche voi con la prima emersione avete imitato il primo giorno del Signore sulla terra e con l’immersione la notte… E in uno stesso momento siete morti e siete rinati; anche quell’acqua salutare fu per voi e tomba e madre…[11].

Il tema del battesimo come partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo non è ovviamente nuovo, ma la rinnovata enfasi su di esso in questo momento, e in particolare il nuovo modo in cui è espresso, è il risultato diretto di questa nuova tendenza. Da questa applicazione al rito battesimale, il passo è breve verso una siffatta tipologia di eucaristia.

Anche da Gerusalemme proviene un rito topografico del simbolismo liturgico che troviamo descritto nel testo di Egèria; l’autrice racconta come ai vespri quotidiani celebrati nella chiesa del Santo Sepolcro, chiamati Lychnicon, parola greca corrispondente a Lucernarium, all’ora decima, cioè alle 16, avveniva l’accensione delle luci nel santuario e venivano cantati i salmi lucernali; dopodiché seguivano preghiere, litanie e benedizioni.

“Tutta la gente si raduna come le altre volte all’Anastasis: si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una grandissima luce. La luce non viene portata dal di fuori, ma è tratta dall’interno della grotta, dove notte e giorno, ininterrottamente, risplende una lampada posta dietro i cancelli…”[12].

Questo rito è presente nella liturgia bizantina detta Proiasmena dei Doni Presantificati, dove il sacerdote, attraversate le Porte Sante, benedice il popolo con un segno di croce fatto con la candela e l’incensiere dicendo: “La luce di Cristo appare a tutti”. Anche l’illuminazione delle candele di Pasqua deriva dallo stesso simbolismo: il Cristo risorto, la luce del mondo, emerge dalla tomba. Anche qui il passo è breve per il simbolismo topologico:

“Ciò che fu diffuso sulla mappa della storia santa di Gerusalemme venne scritto in piccolo nelle chiese più umili della cristianità orientale… Così l’abside del santuario diventa la grotta del sepolcro e l’altare la tomba da cui la salvezza è venuta al mondo… La sua applicazione all’eucaristia era così congrua da essere inevitabile. Il passo successivo, o forse concomitante, poiché la sequenza evolutiva non è poi così chiara, è stato il simbolismo del corteo funerario al trasferimento e alla deposizione dei doni”[13].

[1] Cf. F. PLACIDA, Le omelie battesimali e mistagogiche di Teodoro di Mopsuestia, Coop. San Tommaso – Elledici, Torino 2008.

[2] Cf. Omelia XV, 4; Ibidem, 192-193.

[3] Cf. Omelia XV, 15; Ibidem, 198-199.

[4] Cf. Omelia XVI, 12; Ibidem, 219-220.

[5] Cf. Omelia XVI, 31; 44; Ibidem, 228-229; 235.

[6] Omelia XV, 15; Ibidem, 198.

[7] Omelia XV, 20; Ibidem, 202.

[8] Omelia XV, 25-26; Ibidem, 204-205.

[9] Omelia XVI, 26; Ibidem, 226.

[10] EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, traduzione, introduzione e note a cura di Paolo Siniscalco e Lella Scarampi, Città Nuova editrice, Roma 1985, 161-162.

[11] CIRILLO E GIOVANNI DI GERUSALEMME, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, traduzione di Gabriella Maestri e Victor Saxer, introduzione e note di Victor Saxer, Paoline, Milano 1994, 593.

[12] EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, 132.

[13] TAFT, The Liturgy of the Great Church: an Initial Synthesis of Structure and Interpretation on the Eve of Iconoclasm, in Dumbarton Oaks Papers 34-35 (1980-1981), 66.

diac. Antonio Calisi