Il rito bizantino

TRA RELIGIONE E TRADIZIONE…

Il Rito Greco e l’Eparchia di Lungro

Rituali di nozze tra gli albanesi d’Italia

Le Kalimere

La Grande Settimana Santa (Java e Madhe)

La commemorazione dei defunti (Të vdekurat)

Il Rito Greco e l’Eparchia di Lungro

Nonostante gli arbëreshë siano di religione cattolica, in gran parte delle comunità italo-albanesi di Calabria, da più di 4 secoli, si segue il rito greco similmente ai fratelli orientali greco-ortodossi. Agli inizi del nostro secolo, il Vaticano rivolse una maggiore attenzione alla situazione dei fedeli di rito greco per le continue richieste da essi avanzate per la nomina di un vescovo greco in Calabria e di un altro in Sicila, con pieni poteri territoriali. Nel 1919 papa Benedetto XV creava l’Eparchia di Lungro (Cosenza), che raggruppava i paesi italo-albanesi di rito greco del continente, mentre nel 1937 papa Pio Xl costituiva l’Eparchia di Piana degli Albanesi per gli italo-albanesi di Sicilia. Nelle due Eparchie funzionano due seminari minori, uno a S.Basile (Cosenza) e l’altro, già detto, a Piana. Per il ginnasio e il liceo gli alunni sono inviati al seminario Benedetto XV di Grottaferrata e infine, per completare gli studi universitari vengono accolti nel Pontificio Collegio greco di Roma. I vescovi finora avuti dall’Eparchia di Lungro dalla sua costituzione nel 1919 sono stati: S. E. mons. Giovanni Mele (1919-1979), S. E. mons. Giovanni Stamati (1979-1987), S. E. mons. Ercole Lupinacci (1987) – * S.E. Mons. Donato Oliverio dal 2012.

Attualmente l’Eparchia di Lungro conta 33.000 fedeli, 27 parrocchie, 30 sacerdoti, 2 diaconi, 2 religiosi, 40 religiose, 15 istituti di educazione, 2 istituti di beneficenza. La preparazione del clero avviene nel pre-seminario di S.Basile (CS), nel seminario minore Benedetto XV a Grottaferrata (Roma), e attraverso il Pontificio Collegio Greco di Roma nelle diverse Facoltà teologiche romane.

Rituali di nozze tra gli albanesi d’Italia

Il matrimonio degli arbëreshë finora ha rappresentato un punto forza di difesa, perché fa da veicolo per tramandare i principi, la mentalità e più in generale la cultura arbëreshe alle nuove generazioni. Anche per il motivo etnico intrinseco ad un avvenimento così importante, la celebrazione del matrimonio diventa un fattore sociale di rilievo e viene celebrato con la massima solennità tra i colori del tradizionale costume femminile, tra i riti maestosi di sapore orientale e i canti che per tale circostanza manifestano grande capacità espressiva. Il matrimonio presso gli italo-albanesi è ricco di suggestive cerimonie, da quelle prettamente liturgiche che riflettono il mondo orientale, a quelle popolari molto significative ed espressione della mentalità di questo popolo. In genere le nozze albanesi vengono celebrate domenica, ma è antica tradizione andare a fare visita agli sposi il giovedì precedente. In questa circostanza gli amici divisi in due cori manifestano ai fidanzati con melodie armoniose tutta la loro gioia per il felice avvenimento. Il giorno del matrimonio gli invitati si riuniscono sia nella casa della sposa che in quella dello sposo. Un coro di donne mentre aiuta la sposa a pettinarsi e a vestirsi con i sontuosi costumi albanesi canta alcuni versi. Poi, la sposa, viene adornata con un copricapo di velluto o di seta ricamata che le copre le trecce annodate dietro la nuca. Questo ornamento si chiama “keza” ed è distintivo dello stato coniugale. A questo punto il coro delle donne la invita ad alzarsi, ed alcuni colpi di fucile annunziano l’arrivo dello sposo che è venuto a prendere la sposa per condurla in chiesa. La porta della casa della sposa viene chiusa e s’impegna, pertanto, un simulato conflitto tra gli aderenti di lui e quelli della sposa e dopo varie sfide reciproche, lo sposo, trova sulla soglia di casa il padre della sposa, il quale con il fazzoletto in mano dice allo sposo:
Ti skamandilin do o nusen? (Tu vuoi il fazzoletto o la sposa?)
Lo sposo risponde:
U dua nusen (Io voglio la sposa).
Ad un colpo di fucile si spalanca la porta ed entrano per primi lo sposo e i due paraninfi. Il coro di donne invita la sposa a prendere commiato dai parenti e dopo aver ricevuto la benedizione, dai genitori (uraten), accompagnata dai compari, dal fratello maggiore o dal padre esce da casa, seguita dallo sposo anch’egli accompagnato da parenti e amici. In chiesa si svolge la cerimonia secondo il rito bizantino, ricco di simbolismi e di azioni suggestive. La cerimonia si compone di due riti ben distinti: il rito degli anelli che anticamente si celebrava separatemente e stava a significare il fidanzamento e il rito dell’incoronazione che si fa subito dopo, e consiste, nell’imposizione delle corone agli sposi. Dopo che il papàs ha ricevuto l’assicurazione dei fidanzati di volere contrarre matrimonio liberamente, li benedice e avviene lo scambio degli anelli che sta a significare la scambievole consegna del destino e della fedeltà assoluta. Il rito dell’incoronazione ci porta al centro dell’azione liturgica. Mentre viene incoronato lo sposo con una corona di fiori d’arancio, il papàs dice che egli sta ricevendo la sposa come corona, altrettanto si fa per la sposa. Le corone vengono scambiate per tre volte dal sacerdote e poi dai testimoni. In segno della nuova unione, poi, il sacerdote porge da bere del vino agli sposi in uno stesso bicchiere che subito dopo viene frantumato, quale simbolo della totale ed esclusiva fedeltà perenne. Quindi, gli sposi, preceduti dal papàs e seguiti dai testimoni fanno un triplice giro attorno al tavolo dove è posto il Vangelo in segno di gioia, mentre canta 1′ “Isaia”, che simboleggia la sacra danza con cui presso tutti i popoli antichi si soleva accompagnare ogni solennità religiosa. Terminata la funzione si ricompone il corteo e lo sposo prende per il braccio la sposa e la conduce nella nuova casa. Ivi, si svolge, il banchetto nuziale echeggiante di vjershë e di canti augurali dedicati agli sposi. A Civita, viene cantata la vallja, la classica danza degli albanesi che si esegue tenendosi per mano e cantando in coro formato da tutti i convitati per onorare gli sposi. In questa circostanza viene cantata la rapsodia “Kostandini i vogëlith” (Costantino il piccolo). La rapsodia è densa di accenni commoventi e i motivi in essa presente rispecchiano in tutto i principi del codice Kanun di Lek Dukagini che rappresenta la legge tradizionale degli albanesi. La festa del giorno del matrimonio continua fino a notte inoltrata e quando alla fine gli invitati che hanno fatto ritorno a casa e dappertutto domina il silenzio, un gruppo di amici degli sposi fa arrivare alle loro orecchie le note melodiose di tipici vjershë.

Le Kalimere

In molti paesi albanesi per commemorare la resurrezione di Lazzaro, gruppi di persone prima dell’alba della Domenica delle Palme, ma anche al vespro del sabato, usano andare in giro di casa in casa, cantando le “kalimere” alla famiglia visitata, da cui ricevono in cambio doni. Sono canti popolari augurali in lingua albanese, espressione genuina e spontanea del popolo. La parola “kalimera”, di origine greca, significa “buon giorno”. Nella tradizione di S.Benedetto UIlano, viene cantata la seguente Kalimera:
Ndrinin lurin margaritare / pjot kukule dheu e kanicare ./ Ngreu m’u ngreu m’u zonje shlëpis / e shih se ësht një gonez me ve, / mirrme katër e pesë keqe ve / me di të kuqe e di të bardha për ne…
(Portiamo alle spose l’annata più lieta / con stuoie copiose di bachi da seta. / Svegliati lesta, signora, e di lena / ci porta una cesta di uova ripiene. / Ascolta la nuova, padrona di casa, / vogliamo un po’ d’uova e qualche altra cosa…).

La Grande Settimana Santa (Java e Madhe)

Degli antichi e complessi riti che si svolgevano nel corso della Settimana Santa (Java e Madhe) oggi, in molti paesi albanesi, permangono le processioni drammatiche, che costituiscono uno dei momenti più intensi e significativi della devozione popolare. Le funzioni solenni cominciano la mattina del Giovedì Santo quando il sacerdote, dopo aver letto i dodici brani dei Vangelo, procede alla lavanda dei piedi a dodici uomini della Comunità che rappresentano gli apostoli, seduti attorno ad un grande tavolo sul quale sono disposti altrettanti pani benedetti (kuleçët) che verranno poi tagliati e distribuiti ai fedeli. Altrettanto rispettata è la consuetudine di predisporre, fin dal Mercoledì delle Ceneri, chicchi di grano e legumi in genere, entro i piatti, sul cui fondo è stata stesa bambagia o lana imbevuta d’acqua. E un po’ il rito pagano del giardino di Adone. Nei piatti, sistemati in luogo buio e caldo, prendono vita esili germogli giallognoli. Il Giovedì Santo, abbelliti con nastrini multicolori e con variopinti fiori di campo, vengono sistemati in tutte le chiese per addobbare le cappelle dove si allestisce il sepolcro di Cristo e vengono poi prelevati nella Domenica di Pasqua. Il Giovedì Santo, alle prime ore della sera, si svolge la processione, vivamente sentita dal popolo, che vi partecipa in massa, portando a spalla le diverse statue rappresentanti i vari momenti della via crucis ed eseguendo canti tradizionali albanesi, tramandati oralmente, simili ai canti funebri (vajtimet). La processione viene ripetuta in molte comunità arbëreshë anche il Venerdì Santo. A San Demetrio Corone, la sera del Venerdì Santo si svolge la Via Crucis con la partecipazione in massa di tutti i fedeli, mentre schiere di ragazzi girano per le vie del paese con le “trocke”, tipici strumenti della musica popolare costruite in legno che, in sostituzione del suono delle campane, invitano la gente a partecipare alla processione del Cristo. Nella mattina del Sabato Santo si cantano il Vespro e la Liturgia di S. Basilio e, dopo la lettura dell’Epistola, viene dato in chiesa il preludio della resurrezione di Cristo, simbolicamente sollecitato dal sacerdote a risorgere, mediante il lancio di fiori. In quel momento le campane suonano a gloria, mentre il sacerdote compie il sacro rito alla fine del quale i fedeli si recano nelle fontane a prendere l’acqua benedetta. Dopo la mezzanotte, comitive di giovani, si riversano nelle strade del paese cantando l’inno “Kristos Anesti” (Cristo è risorto) svegliando la gente che dorme. Una tradizione singolare di San Demetrio Corone è la consuetudine tra la notte del Sabato e della Domenica di Pasqua di recarsi, in assoluto silenzio, alla fontana dei monaci, presso il Collegio di Sant’Adriano, per eseguire il rito del “rubare l’acqua”. Il rito riproduce il gesto della Madonna allorquando non potendo lavare il corpo di Gesù perché impedita dalle guardie, si recò, nel silenzio della notte, presso una fontana dove bagnò un panno e così riuscì di nascosto a pulire il corpo del Figlio. Al rito si partecipa a piccoli gruppi che si formano in corrispondenza delle varie “gjitonie”, i vicinati, e che a tarda ora si incamminano verso la fontana. I gruppi procedono rispettando un rigoroso silenzio e resistendo ai molestatori che puntualmente si incontrano lungo la strada, infatti chi ha già bevuto alla fontana è libero dal vincolo del silenzio e si diverte cercando di far parlare chi non l’ha ancora fatto, per questo si vedono le più anziane del gruppo munite di “dokanigje”, lunghi bastoni dall’estremità biforcuta, con l’intento di scoraggiare i tentatori.
Dopo aver bevuto l’acqua del paese si scambiano gli auguri e tra canti e danze si ritorna alla volta del paese. A conclusione del rito ci si ritrova tutti davanti al portone della Chiesa Madre, dove alcuni volontari nel corso della giornata hanno accatastato tronchi d’albero, tavole di legno e ogni genere di materiale e così a mezzanotte si procede all’accensione della “qerradonulla” (grande falò). Al momento dell’accensione si esegue il canto greco “Christos Anesti” (Cristo è Risorto). Una caratteristica funzione liturgica si svolge all’alba della Domenica di Pasqua. Sebbene l’ora insolita la partecipazione dei fedeli e numerosa: il sacerdote con la croce in mano, seguito da questi ultimi, si ferma all’esterno della chiesa, davanti alla porta principale, batte la croce per tre volte sulla porta, ripetendo la formula liturgica del rito bizantino-greco “Aprite le porte”. All’interno della chiesa la forza del male, il demonio (djallthi) con voce cavernosa, chiede chi è che bussa alla porta; alla risposta che è il Signore risorto, le porte si spalancano al terzo colpo. E mentre il demonio scompare, tra scoppi di mortaretti e stridore di catene, il sacerdote seguito dai fedeli entra in chiesa dove ha inizio il ”Mattutino”. Questa cerimonia che simboleggia la Risurrezione della morte, segna la fine della Settimana Santa.

La commemorazione dei defunti (Të vdekurat)

Molto sentito è il culto dei morti commemorati dagli arbëreshë, secondo il rituale bizantino il sabato, a undici giorni dalle Ceneri. Nelle comunità arbereshe è consuetudine dedicare una settimana alla memoria dei defunti. Si crede che Gesù Cristo per otto giorni dia il permesso alle anime dei defunti di uscire dall’oltretomba per fare ritorno in superficie ed andare a ritrovare i luoghi dove sono vissuti. In tutte le case, nel corso di questa settimana, vengono tenuti accesi dei lumi, alimentati da olio, perché i morti entrando vedano la luce. Nelle comunità albanesi della Sila Greca, è tradizione, durante la settimana dei defunti o nel corso dell’anno la celebrazione della S.Messa in suffragio dell’anima di un defunto, recentemente scomparso, svolgcre la cerimonia della benedizione dei “collivi” o “panagiia”. E’ consuetudine usare il grano bollito per commemorare un defunto. Il frumento, secondo i liturgisti è simbolo del corpo umano destinato a risorgere a nuova vita dopo la corruzione e la polvere del sepolcro. Il Papas, l’odierno sacerdote di rito greco, viene invitato dai parenti del defunto a recarsi nelle loro case per benedire i “collivi”. Per questa cerimonia tutti i parenti si trovano vicini, riuniti attorno ad un tavolo, su cui si trova un grande piatto col grano già bollito, due pani interi nostrani, una bottiglia di vino, un bicchiere, un cucchiaio ed un coltello. Due bambini, ai lati del tavolo, reggono in mano una candela accesa. Sopra un braciere viene sparso qualche grano d’incenso, il cui profumo vuole simboleggiare le opere buone e le virtù dello scomparso. Il sacerdote, nella preghiera di benedizione, domanda a Dio di benedire i semi di grano coi diversi frutti. Al termine, il pane viene tagliato a fette e su ciascuna di queste viene disposto il grano bollito. Viene distribuito a tutti i presenti incominciando dai parenti più vicini. I “collivi” rimasti vengono distribuiti alle famiglie. Il sabato dei defunti il sacerdote e i fedeli si recano al cimitero dove si celebra la messa e si benediscono le tombe. Non è raro vedere gruppi di uomini, disposti a forma di cerchio e coi gomiti appoggiati sulla tomba consumare qualche cosa in ricordo del defunto, offrendo da bere anche agli altri. Presso le comunità albanesi della zona del Pollino, era tradizione della gente più bisognosa, chiedere l’elemosina “për shpirt e prigatorvet” (per 1’anima dei cari defunti), recandosi casa per casa. Nelle famiglie più nobili, il giovedì, si preparava in una grossa pentola di grano bollito che veniva distribuito, la sera, ai poveri. A S.Martino di Finita, c’é ancora la tradizione di ricordare i defunti con un regalo in cibarie ai poveri (frutta secca, arance e altro). Anche a Lungro era consuetudine della gente bisognosa bussare casa per casa a chiedere l’elemosina (piçiudhra): olio, grasso, salame, pane.