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Lettera Ecumenica delle Chiese in Italia: “Viviamo e celebriamo la nostra unità nella preghiera comune”

(da chiesacattolica.it)

Pubblichiamo la Lettera Ecumenica firmata da Mons. Ambrogio Spreafico, Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, Mons. Polykarpos Stavropoulos, Vicario Patriarcale della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta, e dal Pastore Luca Maria Negro, Presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2021).

Care sorelle e cari fratelli,

mai come in questo tempo abbiamo sentito il desiderio di farci vicini gli uni gli altri, insieme alle nostre comunità che sono in Italia. La sofferenza, la malattia, la morte, le difficoltà economiche di tanti, la distanza che ci separa, non vogliamo nascondano né diminuiscano la forza di essere uniti in Cristo Gesù, soprattutto dopo aver celebrato il Natale. La sua luce, infatti, è venuta ad illuminare la vita delle nostre comunità e del mondo intero: è luce di speranza, di pace, luce che indica un nuovo inizio. Sì, non possiamo solo aspettare che dopo questa pandemia “tutto torni come prima”, come abitualmente si dice. Noi, invece, sogniamo e vogliamo che tutto torni meglio di prima, perché il mondo è segnato ancora troppo dalla violenza e dall’ingiustizia, dall’arroganza e dall’indifferenza. Il male che assume queste forme vorrebbe toglierci la fede e la speranza che tutto può essere rinnovato dalla presenza del Signore e della sua Parola di vita, custodita e annunciata nelle nostre comunità.

In questi mesi di dolore e di grande bisogno abbiamo visto moltiplicarsi la solidarietà. Molti si sono uniti alle nostre comunità per dare una mano, per farsi vicino a chi aveva bisogno di cibo, di amicizia, di nuovi gesti di vicinanza, pur nel rispetto delle giuste regole di distanziamento. Sentiamo il bisogno di ringraziare il Signore per questa solidarietà moltiplicata, ma vogliamo dire anche grazie a tanti, perché davvero scopriamo quanto sia vero che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (cfr. Atti 20,35). La gratuità del dono ci ha aiutato a riscoprire la continua ricchezza e bellezza della vita cristiana, inondata dalla grazia di Dio, che siamo chiamati a comunicare con maggiore generosità a tutti. Così, non ci siamo lasciati vincere dalla paura, ma, sostenuti dalla presenza benevola del Signore, abbiamo continuato ad uscire per sostenere i poveri, i piccoli, gli anziani, privati spesso della vicinanza di familiari e amici. Le nostre Chiese e comunità hanno trovato unità in quella carità, che è la più grande delle virtù e che, unica, rimarrà come sigillo della nostra comunione fondata nel Signore Gesù.

Desideriamo, infine, intensificare la preghiera gli uni per gli altri, per i malati, per coloro che li curano, per gli anziani soli o in istituto, per i profughi, per tutti coloro che soffrono in questo tempo. Come abbiamo scritto nella presentazione del sussidio per la Settimana di Preghiera per l’unità dei cristiani, oggi la nostra preghiera sale intensa, perché il Signore guarisca l’umanità dalla forza del male e della pandemia, dall’ingiustizia e dalla violenza, e ci doni l’unità tra noi. Ci uniamo con la nostra preghiera anche nella memoria del Metropolita Zervos Gennadios, che per diversi anni ha condiviso con noi il cammino verso la piena unità e ci ha lasciato il 16 ottobre dello scorso anno. La preghiera stessa infatti diventi a sua volta fonte di unità. Ignazio di Antiochia ricorda ai cristiani di Efeso nei suoi scritti: “Quando infatti vi riunite crollano le forze di Satana e i suoi flagelli si dissolvono nella concordia che vi insegna la fede”. Rimanere in Gesù vuol dire rimanere nel suo amore. Quell’amore che ci spinge ad incontrare senza timore gli altri, specialmente i più deboli, i periferici, i poveri ed i sofferenti, come Gesù stesso ci ha insegnato, percorrendo senza sosta le strade del suo tempo.

Viviamo e celebriamo la nostra unità nella preghiera comune, che vedrà riunite le nostre comunità soprattutto in questa settimana.

Un fraterno saluto a tutti nell’amicizia e nella stima che ci uniscono.

Roma, 14 gennaio 2021

Koch: da una storia di divisione può nascerne una di riconciliazione

(Da Vaticannews.va 8 gennaio 2021)

Il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani riflette sul significato e l’importanza della nuova traduzione italiana della Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione che risale al 1999. Ne emerge un nuovo impegno sulla strada del dialogo ecumenico

VATICAN NEWS

Non possiamo cancellare la storia di divisione, ma essa può diventare parte della nostra storia di riconciliazione. È quanto in sintesi esprime il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, a pochi giorni dalla nuova pubblicazione in traduzione italiana riveduta, della “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione” (DC). Il testo chiave nel dialogo tra cattolici e luterani, del 1999, in quanto passo verso il superamento del nodo fondamentale di divisione tra le due Chiese, la questione della salvezza, è stato successivamente recepito da metodisti, anglicani e Chiese riformate. L’iniziativa, a vent’anni di distanza, è stata annunciata dal Dicastero per l’Unità dei Cristiani e dalla Federazione Luterana Mondiale, proprio il 3 gennaio scorso nel 500.mo anniversario della scomunica di Martin Lutero, il 3 gennaio 1521. Una ferita ancora dolorosa sulla quale però, spiega il cardinale, si innesta la ferma volontà di proseguire, guidati dal Vangelo, sulla via della riconciliazione:

R.-  La “Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione” del 1999 rappresenta una tappa importante sulla via della riconciliazione cattolico-luterana. La domanda cruciale per la nostra esistenza cristiana: “Come si arriva alla salvezza e come si rimane nella salvezza?” suscitò aspre polemiche nel XVI secolo, polemiche che alla fine condussero alla divisione nella Chiesa. Dopo secoli di polemiche confessionali, nel 1999 cattolici e luterani hanno potuto confessare insieme, in un consenso differenziante: “non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo della grazia, e nella fede nell’opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere” (DC 15).

Con una sana impazienza. Le prospettive del cammino ecumenico alla luce dei passi compiuti nel 2020

di Riccardo Burigana

(in L’Osservatore Romano, 7 gennaio 2021)

«Anch’io condivido la sana impazienza di quanti a volte pensano che potremmo e dovremmo impegnarci di più». Con queste parole, il 24 maggio scorso, Papa Francesco si è rivolto al cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, in occasione del 25° anniversario della pubblicazione dell’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II per riaffermare quanto prioritario sia per la Chiesa cattolica l’impegno per la costruzione della piena e visibile comunione tra i cristiani; in questo messaggio il Pontefice ha voluto ricordare quanti passi sono stati compiuti, soprattutto negli ultimi decenni, «per guarire ferite secolari e millenarie», anche grazie al contributo del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani che, proprio nel corso del 2020, ha celebrato il 60° anniversario della sua fondazione, avvenuta il 5 giugno 1960 col nome di Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, per opera di Giovanni XXIII , come uno degli organismi pensati per la preparazione immediata del Vaticano II . La memoria di questo anniversario ha costituito uno dei passaggi più significativi del cammino ecumenico del 2020, anche perché, al di là delle iniziative, molte delle quali confinate nel mondo virtuale, con le quali sono stati evocati percorsi e collaborazioni ecumenici, questo anniversario è stata l’occasione per la pubblicazione di una rivista, Acta œcumenica, un «sussidio per quanti lavorano al servizio dell’unità», sempre secondo le parole di Papa Francesco, ma soprattutto de Il vescovo e l’unità dei cristiani: vademecum ecumenico. Presentato il 4 dicembre, costituisce «una chiamata a esplorare ulteriormente il dialogo come modalità di evangelizzazione», ha affermato il cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, sottolineando l’importanza di una formazione al dialogo per tutti i battezzati, alla luce di quanto i cristiani hanno sottoscritto e fatto in questi ultimi anni, soprattutto per la guarigione delle ferite che ancora impediscono la piena comunione.

Il cammino ecumenico ha dovuto fare i conti con la pandemia che ha sconvolto la vita di uomini e donne fin dalle prime settimane del 2020. Di fronte alla sofferenza e al dolore si sono moltiplicate le iniziative, a vario livello, per offrire assistenza e accoglienza, con un’attenzione che si è venuta sempre più rafforzando nei confronti degli ultimi perché a nessuno fosse negata la possibilità di cura. Come, solo per fare un esempio, è stato ripetuto dal Consiglio delle Chiese cristiane del Brasile (Conic), pronto a denunciare come la pandemia stesse determinando nuove emarginazioni colpendo coloro che vivevano ai margini della società, abbandonati a loro stessi, e senza accesso a qualunque tutela sanitaria. I cristiani hanno levato la loro voce, spesso insieme, contro nuove forme di violenza, prodotte proprio dalla pandemia, che in molti casi aggravava una situazione preesistente di incertezza e di precarietà, chiedendo a tutti, soprattutto alle istituzioni, un impegno particolare per intervenire contro questo fenomeno. Da questo punto di vista significative sono state le iniziative del Consiglio nazionale delle Chiese cristiane degli Stati Uniti a sostegno di una campagna di assistenza ai carcerati, mentre la Conferenza cristiana dell’Asia ha programmato una serie di incontri, in modalità webinar, con la partecipazione di esperti e di testimoni dal tutto il continente per condividere esperienze in difesa degli ultimi in questo tempo tanto difficile, lanciando una serie di iniziative per contrastare queste nuove forme di violenza. La pandemia ha anche portato alla luce forme di razzismo che già circolavano nella società contemporanea, come organismi ecumenici avevano denunciato negli ultimi anni, chiedendo un maggior impegno contro questa piaga. Episodi di razzismo sono esplosi in tanti luoghi del mondo causando spesso altra violenza, come è accaduto negli Stati Uniti. Il mondo cristiano, nel condannare qualunque tipo di violenza, tanto più quanto questa cercava una giustificazione nella religione, facendo ricorso anche alla Bibbia, ha scoperto nuove forme di condivisione, tra Chiese e organismi ecumenici, per rivolgere un appello al fine di rimuovere le radici del razzismo.

Di fronte al diffondersi della pandemia si è venuta rafforzando, con una dimensione sempre più ecumenica, l’istanza di alimentare la speranza così da cominciare a immaginare un futuro diverso dal presente, nel quale porre al centro i valori religiosi. Questa prospettiva è stata alimentata da una serie di iniziative molto concrete, come quelle promosse durante la quaresima dal Churches Together in Britain and Ireland, solo per fare un esempio, oltre che da numerosi incontri, via webinar, nei quali forte è stato il richiamo alla necessità di un ulteriore approfondimento del ripensamento delle dinamiche economiche alla luce della riflessione ecumenica sulla cura del creato. La pandemia non deve far dimenticare, come è stato detto in tante occasioni, che i credenti sono chiamati a farsi testimoni della Luce delle genti nel mondo per costruire la pace, fondata sulla giustizia e cercando, così come è stato negli ultimi anni, il dialogo anche con le altre religioni, tanto più su alcuni temi, come la lotta contro ogni forma di violenza, senza confondere la chiamata alla costruzione dell’unità visibile della Chiesa con la ricerca di una collaborazione interreligiosa, come è stato ricordato, proprio nel 2020, da un documento promosso dal Consiglio ecumenico delle Chiese (Wcc) e sottoscritto da tanti organismi cristiani.

A causa della pandemia sono stati rinviati e annullati incontri e iniziative, come nel caso della undicesima assemblea generale del Wcc, prevista a Karlsruhe nel settembre 2021, ma per il momento riprogrammata, sempre nella città tedesca, dal 31 agosto all’8 settembre 2022. Di conseguenza sono state rinviate le assemblee regionali di preparazione, come nel caso di quella europea, che rappresentano da anni uno dei passaggi più significativi dal momento che sono occasioni non tanto per un bilancio di quanto fatto quanto piuttosto di un primo confronto per l’identificazione dei temi sui quali l’Assemblea generale del Wcc è chiamata a deliberare.

Tra gli eventi rinviati, va ricordato il convegno promosso dal Wcc, per il prossimo giugno, sull’insegnamento dell’ecumenismo. Con tale appuntamento il Wcc, in sintonia con tanti altri organismi ecumenici a livello continentale e nazionale, si propone di affrontare un tema sul quale i cristiani si sono interrogati in questi ultimi anni nella consapevolezza che la condivisione dei passi compiuti per il superamento delle divisioni costituisce la sfida delle sfide per le Chiese. E questo dal momento che per molti la questione della recezione dei passi del cammino ecumenico, non solo quelli teologici, appare tanto faticosa quanto frammentaria, impedendo la conoscenza di cosa i cristiani hanno fatto e stanno facendo nella direzione della testimonianza comune della Parola di Dio. Pensare alla formazione vuol dire anche rilanciare un impegno, trasversale agli organismi ecumenici, per un sempre maggior coinvolgimento dei giovani nella vita delle Chiese, tanto che, nel 2021, proprio su questo tema sono stati programmati seminari e incontri, nei quali accanto all’aspetto puramente conoscitivo possa trovare spazio la dimensione spirituale della condivisione delle diverse tradizioni cristiane.

Questo convegno, intitolato «Teaching ecumenism», si colloca quindi in un orizzonte di iniziative sulla recezione e sulla formazione e rappresenta pertanto uno degli appuntamenti più interessanti del 2021, anno in cui, sempre nell’incertezza legata alla diffusione della pandemia, si farà memoria, in Europa, del ventesimo anniversario della firma della Charta œcumenica. Un documento che costituisce una fonte preziosa per il presente dell’ecumenismo, con il suo appello per un coinvolgimento dei cristiani nella testimonianza quotidiana della fede, radicata sull’ascolto delle Sacre Scritture, al di là delle questioni ancora aperte. Proprio il confronto teologico su di esse — che non è venuto meno nel 2020, anche grazie all’ampio ricorso della modalità webinar capace di aprire spazi inattesi e impensabili — continua a essere uno degli aspetti centrali del cammino ecumenico, così come appare dal calendario dei tanti incontri fissati per il 2021, quando si comincerà a pensare anche al 1700° anniversario del concilio di Nicea nel 2025, da vivere insieme per essere, oggi come allora, testimoni dell’amore trinitario nel mondo.

Riconciliazione per l’unità. Il 55° anniversario della reciproca cancellazione delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli

(da L’Osservatore Romano, 9 dicembre 2020)

«L’espressione di una reciproca sincera volontà di riconciliazione» e «un invito a perseguire, in uno spirito di fiducia, di stima e di carità reciproche, il dialogo»: queste parole sono tra le più significative della Dichiarazione comune sottoscritta da Paolo VI e dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Atenagora, in occasione della cerimonia, il 7 dicembre 1965, con la quale si procedeva alla contemporanea e reciproca rimozione delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli. Con questo atto venivano cancellate le scomuniche pronunciate oltre 900 anni prima, ma sempre valide, il 16 luglio 1054 dai legati pontifici inviati da Leone ix nella capitale dell’Impero bizantino per ottenere l’obbedienza ad alcune questioni dogmatiche contro Michele Cerulario, l’allora Patriarca di Costantinopoli; il 24 luglio dello stesso anno il Sinodo della Chiesa di Costantinopoli ne aveva pronunciate contro gli stessi legati e, di fatto, contro il Pontefice romano per riaffermare l’ortodossia delle posizioni e della figura del Patriarca Cerulario. Queste scomuniche, che non erano altro che l’ultima puntata della lotta per la definizione dei criteri con i quali stabilire l’autorità sulla Chiesa universale, hanno segnato i rapporti non solo tra i cristiani per la valenza politica che le scomuniche avevano assunto anche prima di essere pronunciate, mentre cresceva il clima di tensione tra Roma e Costantinopoli.

La cerimonia della reciproca rimozione si svolse contemporaneamente a Roma, alla vigilia della conclusione del concilio Vaticano II, di fronte a tutti i Padri conciliari, e a Costantinopoli, alla presenza del Sinodo proprio per sottolineare come questo atto non era un’iniziativa personale di due testimoni del Vangelo, ma un passo ufficiale della Chiesa di Roma e della Chiesa di Costantinopoli che insieme decidevano di compiere un gesto di fraternità, nel reciproco perdono, dopo secoli di scontri, di condanne e di silenzi. Un gesto che conteneva in sé un profondo valore simbolico, che andava ben oltre il significato teologico, proprio per il peso che le scomuniche del 1054 avevano assunto nelle relazioni tra cristiani nel corso dei secoli: erano stati celebrati due concili — quello di Lione (1274) e quello di Ferrara-Firenze (1439) — proprio per superare le divisioni che erano state determinate dalle scomuniche che pure avevano fotografato una situazione di tensioni e di sospetti che si era venuti creando nel corso dei secoli tra tradizioni, che avevano assunto forme particolari, pur radicate su un comune patrimonio dottrinale, a causa dei contesti geopolitici tanto diversi con i quali i cristiani si erano dovuti confrontare in Oriente e in Occidente. Sulle forme assunte dalle tradizioni cristiane nel primo millennio ci si è a lungo interrogati, spesso cercando giustificazioni storiche a dichiarazioni dottrinali anche se, negli ultimi decenni, soprattutto in ambito ecumenico, si sono aperte nuove prospettive per la lettura del primo millennio del cristianesimo, nonostante i limiti nella ricostruzione storico-teologica, determinati dalla disponibilità delle fonti, così diversa da luogo a luogo, da secolo a secolo. Al di là delle letture apologetiche che sono state date del 1054, era evidente che questo momento rappresentava una ferita per il corpo della Chiesa, tanto che nel corso dei secoli, oltre ai due Concili nominati, conclusi, soprattutto il secondo, con la sottoscrizione di testi di unione che hanno rappresentato un punto di riferimento per tanti cristiani, non erano mancate le voci di coloro che invocavano la ricostruzione della comunione tra Occidente e Oriente; queste voci, largamente minoritarie, erano state costrette a convivere, fino a venirne soffocate, con quelle, molto più rumorose, di coloro che preferivano leggere il 1054 come un «muro» con il quale tenere separate la verità e l’errore, rivendicando una storia di purezza che non teneva conto della molteplicità di tradizioni formatasi già nel primo millennio e diffuse nel secondo millennio della presenza cristiana anche in considerazione dei nuovi orizzonti missionari che avevano portato il cristianesimo a assumere una dimensione globale. Al rafforzamento di questo «muro» avevano contribuito anche tante vicende politiche, dalla quarta Crociata (1204) al «nazionalismo esasperato» dell’età contemporanea, solo per citarne due tra le più emblematiche anche per la loro attualità, offrendo nuove argomentazioni a coloro che pensavano all’unità in termini di uniformità nella sottomissione.

La cerimonia del 7 dicembre 1965 è stata uno dei primi frutti della nuova stagione nei rapporti tra Roma e Costantinopoli che si era aperta con l’incontro tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora, a Gerusalemme, il 5 gennaio 1964, in un viaggio tanto fecondo per il cammino ecumenico, come testimoniano i tanti passi compiuti da cattolici e ortodossi per superare le divisioni che ancora impediscono la piena e visibile comunione: «a cinquant’anni dall’abbraccio di quei due venerabili Padri, riconosciamo con gratitudine e rinnovato stupore come sia stato possibile, per impulso dello Spirito Santo, compiere passi davvero importanti verso l’unità», come ha ricordato Papa Francesco in occasione del viaggio in Terra Santa, nel maggio 2014, per celebrare, insieme al Patriarca Bartolomeo, il 50° anniversario di quell’incontro.

Molto della cerimonia del 7 dicembre, senza voler togliere niente al coraggio di Atenagora, che si muoveva in un mondo ortodosso diviso al suo interno, anche per la presenza di tanti ortodossi all’interno dell’impero sovietico, si deve a Paolo VI che, con le sue parole e i suoi gesti, aveva chiaramente indicato alla Chiesa, a partire dai Padri riuniti a Roma per il concilio Vaticano II, quanto prioritaria egli considerasse la ricerca delle strade per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa, così da mettere fine al tempo delle divisioni e delle contrapposizioni. Nella ricerca di queste strade si manifestava il desiderio di vivere la piena comunione con tutti i fratelli e le sorelle in Cristo, a cominciare da coloro che condividevano la propria confessione, senza creare alcun rapporto privilegiato, come alcuni tentarono di sostenere, anche alla luce dei rapporti tra Roma e Costantinopoli o tra Roma o Canterbury, aggiungendo divisioni a divisioni, mentre invece era il comandamento evangelico dell’amore per l’unità che guidava Papa Montini. In questo contesto si inserisce la cerimonia della contemporanea e reciproca cancellazione delle scomuniche che tanto aiutò i cristiani a considerare il passato non semplicemente come un peso nel cammino ecumenico, ma come una memoria da conoscere per promuovere una riconciliazione, radicata sulla conversione dei cuori, dal momento che «più stretta sarà la comunione [dei cristiani] col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (Unitatis redintegratio n. 7).

di Riccardo Burigana

Il patriarca Bartolomeo commenta l’enciclica «Fratelli Tutti»

 

L’intervista di Andrea Tornielli su «L’Osservatore Romano», 20 ottobre 2020, pp. 1/3

 

Santità, qual è stata la sua reazione alla lettura dell’enciclica «Fratelli tutti» di Papa Francesco?

Prima ancora di conoscere l’Enciclica Fratelli Tutti del nostro fratello Papa Francesco, abbiamo avuto la certezza che si sarebbe trattato di un altro esempio del suo incrollabile interesse per l’uomo, “l’amato di Dio”, attraverso la manifestazione della solidarietà verso tutti “gli affaticati e gravati” e i bisognosi, e che avrebbe contenuto proposte concrete per affrontare le grandi sfide del momento, ispirate dalla fonte inesauribile della tradizione cristiana, e che emergono dal suo cuore pieno d’amore. Le nostre aspettative sono state pienamente soddisfatte dopo aver completato l’analisi di questa interessantissima Enciclica, la quale non costituisce semplicemente un compendio o un sommario delle precedenti Encicliche o di altri testi di Papa Francesco, ma il coronamento e la felice conclusione di tutta la dottrina sociale. Siamo completamente d’accordo con l’invito–sfida di Sua Santità ad abbandonare l’indifferenza o anche il cinismo che governa la nostra vita ecologica, politica, economica e sociale in genere, come di unità centrate su sé stesse o disinteressate, e a sognare il nostro mondo come una famiglia umana unita, nella quale siamo tutti fratelli senza eccezioni. Con questo spirito esprimiamo l’auspicio e la speranza che l’Enciclica Fratelli tutti si riveli fonte di ispirazione e di dialogo fecondo attraverso l’assunzione di iniziative determinanti e azioni trasversali su un piano inter-cristiano, interreligioso e pan-umano.

Nel primo capitolo dell’Enciclica si parla delle “ombre ” che persistono nel mondo. Quali sono quelle che la preoccupano di più? E quale speranza ricaviamo dallo sguardo sul mondo che ci deriva dal Vangelo?

Con il suo acuto senso umanistico, sociale e spirituale, Papa Francesco individua e nomina le “ombre” nel mondo moderno. Parliamo di “peccati moderni”, anche se ci piace sottolineare che il peccato originale non è avvenuto nei nostri tempi e nella nostra epoca. Non idealizziamo affatto il passato. Giustamente, tuttavia, siamo turbati dal fatto che i moderni sviluppi tecnici e scientifici hanno rafforzato l’“hybris” dell’uomo. Le conquiste della scienza non rispondono alle nostre fondamentali ricerche esistenziali, né le hanno eliminate. Constatiamo anche che la conoscenza scientifica non penetra nelle profondità dell’anima umana. L’uomo lo sa, ma si comporta come se non lo sapesse.

Il Papa parla anche del persistente divario tra i pochi che possiedono molto e tanti che possiedono poco o nulla…

Lo sviluppo economico non ha ridotto il divario tra ricchi e poveri. Piuttosto, ha stabilito la priorità del profitto, a scapito della protezione dei deboli, e contribuisce all’esacerbazione dei problemi ambientali. E la politica è diventata serva dell’economia. I diritti umani e il diritto internazionale vengono elaborati e servono scopi estranei alla giustizia, alla libertà e alla pace. Il problema dei rifugiati, il terrorismo, la violenza di Stato, l’umiliazione della dignità umana, le moderne forme di schiavitù e l’epidemia di covid-19 stanno ora mettendo la politica davanti a nuove responsabilità e cancellano la sua logica pragmatistica.

Qual è, di fronte a questa situazione, la proposta del cristianesimo?

La proposta di vita della Chiesa è la svolta verso il “una cosa sola è necessaria”, e questa è l’amore, l’apertura all’altro e la cultura della solidarietà delle persone. Davanti al moderno arrogante “uomo-dio” predi – chiamo il “Dio-Uomo”. Di fronte all’economicismo, diamo posto all’economia ecologica e alla attività economica che si basa sulla giustizia sociale. Alla politica del “diritto del più forte”, opponiamo il principio del rispetto degli inalienabili diritti dei cittadini e del diritto internazionale. Di fronte alla crisi ecologica, siamo chiamati al rispetto del creato, alla semplicità e alla consapevolezza della nostra responsabilità di consegnare alla prossima generazione un ambiente naturale integro. Il nostro sforzo per affrontare questi problemi è indispensabile, ma sappiamo che colui che opera attraverso di noi è il Dio amico degli uomini.

Perché l’icona del Buon Samaritano è attuale oggi?

Cristo collega in particolare il “primo e grande comandamento” dell’amore verso Dio con il “secondo simile al primo” comandamento dell’amore per il prossimo (Mt 22, 36–40). E aggiunge: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». E Giovanni il teologo è molto chiaro: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio» (Gv 4, 8). La parabola del Buon Samaritano è vicina alla parabola del Giudizio (Mt 25, 31–46), è (Lc 10, 25–37) il testo biblico, che ci rivela tutta la verità del comandamento dell’amore. In questa parabola, il Sacerdote e il Levita rappresentano la religione, che è chiusa in sé stessa, si interessa solo di mantenere la “legge” inalterata, ignorando e trascurando in modo farisaico le «prescrizioni più gravi della legge» (Mt 23, 23), l’amore e il sostegno al prossimo. Il Buon Samaritano si rivela essere lo straniero filantropo vicino a colui che è stato percosso dai banditi e ferito. Alla domanda iniziale del dottore della legge «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10, 29), Cristo risponde con una domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» (Lc 10, 36). Qui all’uomo non è permesso fare domande, ma gli viene chiesto e viene chiamato ad agire. È sempre necessario far emergere il prossimo, il fratello, davanti e nei confronti del lontano, dello straniero e del nemico. È da notare che nella parabola del Buon Samaritano, in accordo con la domanda del dottore della legge che mette alla prova Cristo «Che devo fare per ereditare la vita eterna» (Luca 10, 25), in risposta ad essa, il reale amore per il prossimo ha un chiaro riferimento soteriologico. Questo è anche il messaggio della pericope del Giudizio.

Su quali basi possiamo considerarci tutti fratelli e perché è importante scoprirsi tali per il bene dell’umanità?

I cristiani della Chiesa nascente si chiamavano tra loro “fratelli”. Questa fratellanza spirituale e Cristocentrica è più profonda della parentela naturale. Per i cristiani, tuttavia, fratelli non sono solo membri della Chiesa, ma tutti i popoli. La Parola di Dio ha assunto la natura umana e ha unito tutto in sé. Come tutti gli esseri umani sono creazione di Dio, così tutti sono stati inseriti nel piano della salvezza. L’amore del credente non ha confini e limiti. Infatti, abbraccia l’intero creato, è «l’ardere del cuore per tutta la creazione» (Isacco il Siro). L’amore per i fratelli è sempre incomparabile. Non si tratta di un sentimento astratto di simpatia verso l’umanità, che di solito ignora il prossimo. La dimensione della comunione personale e della fratellanza distingue l’amore e la fratellanza cristiana dall’umanesimo astratto.

Il Papa nell’Enciclica pronuncia una condanna molto forte della guerra e della pena di morte. Come commenta quel capitolo di «Fratelli tutti»?

A questo tema si è riferito il Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa (Creta, giugno 2016), tra gli altri, in questo modo: «La Chiesa di Cristo generalmente condanna la guerra, che considera il risultato del male e del peccato» (La Missione della Chiesa ortodossa nel mondo moderno, D, 1). Sulle labbra di ogni cristiano deve esserci lo slogan “Mai più guerra!”. E l’atteggiamento di una società nei confronti della pena di morte è un indicatore del suo orientamento culturale e della considerazione della dignità dell’uomo. Il degno sistema della cultura costituzionale europea, di cui uno dei pilastri fondamentali è l’idea dell’amore, come espressione delle sue credenze cristiane, impone di considerare che a ogni uomo deve essere data la possibilità di pentimento e di miglioramento, anche se è stato condannato per il peggior crimine. È pertanto conseguenza logica e morale che anche colui, che condanna la guerra, rifiuti la pena di morte.

«Nessuno si salva da solo. Pace e fraternità». Incontro Internazionale promosso dalla Comunità di Sant'Egidio nello "Spirito di Assisi"

Omelia di Papa Francesco durante la preghiera ecumenica per la pace nella basilica di Santa Maria in Aracoeli

È un dono pregare insieme. Ringrazio e saluto con affetto tutti voi, in particolare Sua Santità il Patriarca Ecumenico, il mio fratello Bartolomeo, il Reverendissimo Arcivescovo di Canterbury Justin e il caro Vescovo Heinrich, Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania. Purtroppo, il Reverendissimo Arcivescovo di Canterbury Justin non è potuto venire a causa della pandemia.

Il brano della Passione del Signore che abbiamo ascoltato si situa appena prima della morte di Gesù e parla della tentazione che si abbatte su di Lui, stremato sulla croce. Mentre vive il momento più alto del dolore e dell’amore, molti, senza pietà, scagliano contro di Lui un ritornello: «Salva te stesso!» (Mc 15, 30). È una tentazione cruciale, che insidia tutti, anche noi cristiani: è la tentazione di pensare solo a salvaguardare sé stessi o il proprio gruppo, di avere in testa soltanto i propri problemi e i propri interessi, mentre tutto il resto non conta. È un istinto molto umano, ma cattivo, ed è l’ultima sfida al Dio crocifisso.

Salva te stesso. Lo dicono per primi «quelli che passavano di là» (v. 29). Era gente comune, che aveva sentito Gesù parlare e operare prodigi. Ora gli dicono: «Salva te stesso, scendendo dalla croce». Non avevano compassione, ma voglia di miracoli, di vederlo scendere dalla croce. Forse anche noi a volte preferiremmo un dio spettacolare anziché compassionevole, un dio potente agli occhi del mondo, che s’impone con la forza e sbaraglia chi ci vuole male. Ma questo non è Dio, è il nostro io. Quante volte vogliamo un dio a nostra misura, anziché diventare noi a misura di Dio; un dio come noi, anziché diventare noi come Lui! Ma così all’adorazione di Dio preferiamo il culto dell’io. È un culto che cresce e si alimenta con l’indifferenza verso l’altro. A quei passanti, infatti, Gesù interessava solo per soddisfare le loro voglie. Ma, ridotto a uno scarto sulla croce, non interessava più. Era davanti ai loro occhi, ma lontano dal loro cuore. L’indifferenza li teneva distanti dal vero volto di Dio.

Salva te stesso. In seconda battuta si fanno avanti i capi dei sacerdoti e gli scribi. Erano quelli che avevano condannato Gesù perché rappresentava per loro un pericolo. Ma tutti siamo specialisti nel mettere in croce gli altri pur di salvare noi stessi. Gesù, invece, si lascia inchiodare per insegnarci a non scaricare il male sugli altri. Quei capi religiosi lo accusano proprio a motivo degli altri: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso!» (v. 31). Conoscevano Gesù, ricordavano le guarigioni e le liberazioni che aveva compiuto e fanno un collegamento malizioso: insinuano che salvare, soccorrere gli altri non porta alcun bene; Lui, che si era tanto prodigato per gli altri, sta perdendo sé stesso! L’accusa è beffarda e si riveste di termini religiosi, usando due volte il verbo salvare. Ma il “vangelo” del salva te stesso non è il Vangelo della salvezza. È il vangelo apocrifo più falso, che mette le croci addosso agli altri. Il Vangelo vero, invece, si carica delle croci degli altri.

Salva te stesso. Infine, anche quelli crocifissi con Gesù si uniscono al clima di sfida contro di Lui. Com’è facile criticare, parlare contro, vedere il male negli altri e non in sé stessi, fino a scaricare le colpe sui più deboli ed emarginati! Ma perché quei crocifissi se la prendono con Gesù? Perché non li toglie dalla croce. Gli dicono: «Salva te stesso e noi!» (Lc 23, 39). Cercano Gesù solo per risolvere i loro problemi. Ma Dio non viene tanto a liberarci dai problemi, che sempre si ripresentano, ma per salvarci dal vero problema, che è la mancanza di amore. È questa la causa profonda dei nostri mali personali, sociali, internazionali, ambientali. Pensare solo a sé è il padre di tutti i mali. Ma uno dei malfattori osserva Gesù e vede in Lui l’amore mite. E ottiene il paradiso facendo una sola cosa: spostando l’attenzione da sé a Gesù, da sé a chi gli stava a fianco (cfr. v. 42).

Cari fratelli e sorelle, sul Calvario è avvenuto il grande duello tra Dio venuto a salvarci e l’uomo che vuole salvare sé stesso; tra la fede in Dio e il culto dell’io; tra l’uomo che accusa e Dio che scusa. Ed è arrivata la vittoria di Dio, la sua misericordia è scesa sul mondo. Dalla croce è sgorgato il perdono, è rinata la fraternità: «la Croce ci rende fratelli» (Benedetto XVI, Parole al termine della Via Crucis, 21 marzo 2008). Le braccia di Gesù, aperte sulla croce, segnano la svolta, perché Dio non punta il dito contro qualcuno, ma abbraccia ciascuno. Perché solo l’amore spegne l’odio, solo l’amore vince fino in fondo l’ingiustizia. Solo l’amore fa posto all’altro. Solo l’amore è la via per la piena comunione tra di noi.

Guardiamo al Dio crocifisso, e chiediamo al Dio crocifisso la grazia di essere più uniti, più fraterni. E quando siamo tentati di seguire le logiche del mondo, ricordiamo le parole di Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 35). Quella che agli occhi dell’uomo è una perdita è per noi la salvezza. Impariamo dal Signore, che ci ha salvati svuotando sé stesso (cfr. Fil 2, 7), facendosi altro: da Dio uomo, da spirito carne, da re servo. Invita anche noi a “farci altri”, ad andare verso gli altri. Più saremo attaccati al Signore Gesù, più saremo aperti e “universali”, perché ci sentiremo responsabili per gli altri. E l’altro sarà la via per salvare sé stessi: ogni altro, ogni essere umano, qualunque sia la sua storia e il suo credo. A cominciare dai poveri, dai più simili a Gesù Cristo. Il grande arcivescovo di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo scrisse che «se non ci fossero i poveri, in larga parte sarebbe demolita la nostra salvezza» (Sulla II Lettera ai Corinzi, XVII, 2). Il Signore ci aiuti a camminare insieme sulla via della fraternità, per essere testimoni credibili del Dio vero vivo.

Il Messaggio di Natale del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano, 12 dicembre 2018.

Da Veritas in caritate. Informazioni dall’Ecumenismo in Italia 11/12 (2018), p. 49.

A un tratto vi fu con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva “Gloria a Dio nei luoghi altissimi e pace in terra agli uomini che egli gradisce” Luca 2,14-15 “Benedico le Forze Armate… di strumenti musicali” don Tonino Bello
Natale è l’annuncio di un festoso e pacifico golpe dal cielo, il golpe della speranza. L’esercito pacifico degli angeli viene, armato di arpe, cetre e trombe, a portare ai poveri il dono di un riscatto ad opera di un Re di giustizia, di un Principe di pace.
Faraone, Cesare e Erode, devono lasciare posto al neonato re Messia: Gesù il figlio di Dio.
250 volte nella Bibbia si parla di il Signore degli eserciti. Ma adesso si svela definitivamente il suo carattere singolare. Questo esercito non è munito di costose armi di sterminio di massa, ma di strumenti musicali, per unire il coro del cielo con la melodia dei canti notturni dei pastori che custodivano il gregge. E’ un esercito che non crea terrore ma delizia nel cuore.
“Sia pace in terra, – cessi ogni guerra: nato è Cristo il Salvator”, riecheggiano le parole di un antico canto natalizio, esso stesso risonanza del canto angelico.
Nella tradizione bizantina si fa corrispondere al coro angelico, quello dei pastori. Così scrive Sever J. Voicu “Il testo del Vangelo afferma che i pastori “stavano all’aperto”. Ma, con un gioco di parole intraducibili, lo stesso verbo greco può indicare, come fanno alcuni testi liturgici, che “suonavano il flauto all’aperto” e, per estensione, che “cantavano all’aperto”. In questo modo, la tradizione bizantina stabilisce un parallelo fra il coro degli angeli, nei cieli, e le voci dei pastori, sulla terra”.
Ma gli Erode della terra non godono di questa melodia. Chi costruisce il potere non sul servizio, ma sul dominio, vede in questo annuncio una minaccia all’ordine esistente. Nessuno più di Erode capisce veramente chi sia questo Messia. Così sulla venuta del Messia come un bambino disarmato e bisognoso di cure, si stende da subito la sinistra ombra di morte che produrrà una scia di sangue fino a quel tragico Venerdì di Pasqua.
Non ci meravigliamo perciò che il Natale sia occasione di trame occulte, di mobilitazione del male, di organizzazione della menzogna assurta a sistema.
Quando al vescovo di Molfetta, Tonino Bello, morto 25 anni fa, fu chiesto di benedire un esercito in occasione di una pubblica cerimonia civile, egli disse: “Benedico le forze armate… di strumenti musicali”. La parola di Dio sulla nostra bocca produce necessarie torsioni della lingua, inattesi cambiamenti semantici, un nuovo modo di pensare a cui corrisponde un nuovo modo di parlare.
Se l’esercito della speranza canta con i poveri, la chiesa di Cristo è chiamata a rispondere all’antifona, con la benedizione di chi opera quotidianamente per la gioia e per la vita.
Perciò: Buon Natale a chi accoglie!
Buon Natale all’esercito dei volontari della solidarietà che in Italia e nel mondo si offrono per la difesa della pace, l’affermazione della giustizia e la salvaguardia del creato. Le loro voci si accordano in una cosmica sinfonia che alimenta la speranza di tutti.
Buon Natale a chi annuncia il Vangelo e a chi, con cuore gioioso, lo riceve nel proprio cuore e nella propria casa.
Benvenuto Gesù!

Chiesa Anglicana, Chiesa Apostolica Armena, Chiesa Apostolica Ortodossa della Georgia, Chiesa Avventista del 7° Giorno, Chiesa Cattolica Ambrosiana, Chiesa Copta Ortodossa d’Egitto, Chiesa Copta Ortodossa d’Eritrea, Chiesa Copta Ortodossa d’Etiopia, Chiesa Cristiana Protestante (Luterana e Riformata), Chiesa Evangelica Battista, Chiesa Evangelica Metodista, Chiesa Evangelica Valdese, Chiesa di Svezia, Chiesa Ortodossa del Patriarcato di Costantinopoli, Chiesa Ortodossa Bulgara del Patriarcato di Sofia, Chiesa Ortodossa Romena del Patriarcato di Bucarest, Chiesa Ortodossa Russa del Patriarcato di Mosca, Chiesa Ortodossa Serba del Patriarcato di Belgrado, Esercito della Salvezza

Messaggio di Natale del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano, 2017.

Da Veritas in caritate. Informazioni dall’Ecumenismo in Italia 10/12 (2017), p. 53.

Care amiche e cari amici che abitate a Milano,
le Chiese cristiane di questa città desiderano condividere con voi una parola di augurio. In occasione del Natale, si accendono molte luci; una festa luminosa che rischia di accecare il nostro sguardo. I racconti evangelici della nascita di Gesù, al contrario, non abbagliano ma invitano a metterci in ricerca di un’umanità che sempre rischiamo di smarrire. A Natale, noi cristiani facciamo memoria della nascita di Gesù, di Colui che è Dio e si è fatto essere umano condividendo la sorte dei più deboli. Se ci mettiamo in ascolto del racconto dell’evangelista Matteo, la nascita di Gesù non presenta alcuna solennità.
Questo evento, che ai nostri occhi ha cambiato la storia, ci viene raccontato all’insegna del nascondimento. Maria si ritrova incinta prima di andare a vivere con Giuseppe. Costui, un uomo giusto che non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente (1,19). E fin qui possiamo anche capire quel desiderio di nascondere qualcosa che gli altri avrebbero giudicato negativamente. Ma il seguito del racconto insiste di nuovo su questo aspetto. Gesù, cercato dai magi d’Oriente, è nascosto ad Erode e a tutta Gerusalemme (2,3). Ricercato da Erode, deve nascondersi in Egitto (2,13-15) e poi in Galilea (2,23-25).
Nel seguito della narrazione, Matteo ricorda la parabola di Gesù, secondo la quale Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo (13,44). Le parabole stesse, secondo Matteo, sono raccontate per annunciare qualcosa di nascosto: aprirò in parabole la mia bocca; proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (13,35). Gesù ne parla perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto (10,26). Ma non tutti sono disposti ad accogliere questa parola.
La venuta di Gesù è qualcosa di nascosto, per nulla eclatante. La sua nascita non ha destato alcun interesse a quell’epoca. Ed anche oggi, in Occidente, dove gli anni si calcolano distinguendoli tra quelli prima e quelli dopo Cristo, la sua presenza ed il suo sogno continuano a rimanere nascosti in una storia che spesso è affollata da tanti idoli. Fare memoria della nascita di Gesù significa credere che nel campo insanguinato di questo nostro mondo è nascosto il tesoro del Regno di Dio. Credere che in quel bambino sono racchiuse le speranze di una nuova umanità. Credere che la sua Parola, per quanto inattuale e nascosta al giudizio della storia, sia quella luce di cui abbiamo bisogno.
Dio si nasconde perché vuole essere cercato. Lo dice bene un racconto della tradizione ebraica: Il nipote di Rabbi Baruch, Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo. Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo uscì dal nascondiglio, ma l’altro non si vedeva. Jehiel si accorse allora che quello non lo aveva mai cercato. Questo lo fece piangere; piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si riempirono allora di lacrime e disse: «Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma nessuno mi vuol cercare». (Martin Buber, I racconti dei Chassidim).
Fare memoria di un Dio nascosto significa mettersi alla ricerca, come i Magi, senza presumere di avere e di sapere già. Significa farsi piccoli: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto (Mt 11,25-26).
Non lasciamoci, allora, abbagliare dalle luci artificiali. Impariamo, piuttosto, il segreto che la volpe confida al Piccolo Principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
(Antoine de Saint-Exupéry, il Piccolo Principe).

Ecclesia semper reformanda est. Messaggio delle Chiese Cristiane riunite ad Assisi al termine dell’Anno commemorativo della Riforma.

Da Veritas in caritate. Informazioni dall’Ecumenismo in Italia 10/12 (2017), p. 54.

Care sorelle e cari fratelli in Cristo,
le chiese cristiane che si sono riunite ad Assisi nei giorni 20-22 novembre 2017 al termine di un anno di commemorazione comune del 500° anniversario dell’inizio della Riforma protestante, vi inviano questo messaggio per comunicarvi quanto discusso ed approfondito in uno spirito di fraternità cristiana e per ampliare il dialogo tra le chiese.
La prima parola che vorremmo comunicarvi è in realtà un pensiero rivolto ai tanti cristiani che in Medio Oriente e in diversi altri luoghi del mondo vengono perseguitati perché proclamano il loro amore irrinunciabile per Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. La loro testimonianza, che giunge talvolta fino al martirio di sangue, è per tutti e tutte noi una vera predicazione dell’Evangelo che ci richiama a un risveglio delle nostre coscienze e del nostro discepolato, invitandoci a chiedere per tutti, in ogni luogo, la libertà di culto come un diritto fondamentale.
Nel convegno di Assisi ci siamo incontrati come rappresentanti di varie chiese, appartenenti a diverse tradizioni d’Oriente e di Occidente. Questo è stato possibile per il cammino che in questi anni ha coinvolto tanti cristiani e tante cristiane in Italia, come in tante altre parti del mondo, per promuovere il supremo testamento di Gesù Cristo, “che tutti siano una cosa sola” (cfr. Gv 17,11). Tutte queste chiese si sono confrontate sul medesimo tema, sull’urgenza, cioè, di dare una comune testimonianza cristiana al fine di giungere a una piena riconciliazione della famiglia cristiana, così da rendere sempre più efficace l’annuncio della Parola di Dio nella società italiana del XXI secolo.
Per fare questo tutti ci siamo sottoposti all’autorità della Parola di Dio, alla volontà e alla misericordia dell’Onnipotente. La divisione dei cristiani è uno scandalo e avvertiamo con chiarezza il peso delle colpe di tutti, delle responsabilità di ciascuno nel non essere stati in grado di procedere più speditamente nella costruzione della piena e visibile comunione, segno dell’unità nella diversità alla quale tutti i cristiani sono chiamati. Oggi rendiamo grazie a Dio in Cristo Gesù perché ha voluto farci la grazia di sperimentare il soffio del suo Spirito Santo che fa ogni cosa nuova. Ricordiamo con gratitudine tutti coloro che da già dall’inizio del secolo scorso hanno lavorato per promuovere l’unità dei cristiani, sia a livello internazionale – attraverso anche le Commissioni di dialogo teologico – sia a livello nazionale. Le cose nuove di Dio sono iniziate non solo per noi ma anche in noi e così si aprono nuove strade di comunione.
Pertanto vi invitiamo a riflettere su alcune questioni che nascono da quanto ci siamo detti ad Assisi. Vi chiediamo di contribuire a rafforzare il dialogo a livello locale per favorire la crescita di una testimonianza quotidiana della dimensione ecumenica della fede cristiana:
1. Ogni chiesa è chiamata, in ogni epoca, a conformarsi alla Parola di Dio, perché ogni riforma della chiesa è opera di Dio che chiama a vivere le cose nuove dello Spirito. Cristo è il cambiamento, in Lui quello che prima non era possibile ora è realtà. Come vivere le cose nuove di Dio all’interno delle nostre tradizioni? Siamo consapevoli che Dio ci chiama ogni giorno a conversione?
2. La libertà è uno dei più grandi doni di Dio all’uomo. Essa rende ogni essere umano capace di progredire verso la perfezione spirituale, ma allo stesso tempo include il pericolo della disobbedienza, come indipendenza da Dio, quindi della caduta, da cui derivano le tragiche conseguenze del male nel mondo. Dio invece rimane fedele all’Evangelo, la sua fedeltà precede e fonda quella dei credenti. Egli è fedele alle sue promesse, al suo patto di grazia già iniziato nella storia della salvezza con il popolo d’Israele; Egli è fedele al fatto che, se «quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita», come insegna l’Apostolo San Paolo (Lettera ai cristiani di Roma, 5,10). Noi dunque proponiamo con convinzione questa fedeltà, l’amore assoluto di Dio che si rivela nel Signore Crocifisso, come la sola via per un mondo di pace, di giustizia, di libertà e di solidarietà tra gli esseri umani e tra i popoli, la cui unica e ultima misura è sempre il Signore, “Agnello immolato” per la vita del mondo (cfr. Ap 5,12), ossia l’Amore infinito del Dio Uno e Trino. Come viviamo questa condizione di libertà in Cristo e di servizio reciproco?
3. La testimonianza evangelica e l’impegno sociale delle chiese oggi devono confrontarsi con la realtà multiculturale e interreligiosa senza paure e senza preconcetti, perché siamo chiamati a rispondere per fede alle domande degli uomini e delle donne di oggi che cercano speranza e salvezza. Come stiamo nella società in quanto cristiani? Come ci stiamo con quello spirito di pace che ci dovrebbe caratterizzare?
4. Possiamo camminare insieme, chiedendoci come predicare la Parola di Dio nell’oggi senza cadere nella tentazione di predicare l’oggi. Come possiamo interloquire con la cultura rimanendo una voce critica e profetica?
5. Cosa intendiamo quando predichiamo Cristo crocifisso e risorto? Gesù è ancora scandalo e follia?
In questo Spirito, vi invitiamo a accogliere e condividere queste parole nelle vostre comunità e con le sorelle e i fratelli in Cristo che vivono accanto a voi, a partire dalla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani del prossimo gennaio.
Vi salutiamo nel nome di colui che ci riconcilia tutti in un solo corpo (cfr. Ef 2,16).

Chiesa Apostolica Armena – Chiesa Cattolica Romana – Chiesa d’Inghilterra – Chiesa Ortodossa: Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta (Patriarcato Ecumenico), Diocesi Ortodossa Romena in Italia – Federazione delle Chie-se Evangeliche in Italia (Battisti, Esercito della Salvezza, Luterani, Metodisti e Valdesi).
La Chiesa Copta Ortodossa e la Chiesa Cristiana Avventista del 7° Giorno aderiscono in qualità di osservatori.

Assisi, 22 novembre 2017.

Comunicato congiunto del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e della Federazione Luterana Mondiale, a conclusione dell’anno commemorativo comune della Riforma.

 

Da Veritas in caritate. Informazioni dall’Ecumenismo in Italia 10/10 (2017), pp. 46-47.

Oggi, 31 ottobre 2017, ultimo giorno dell’anno della Commemorazione comune della Riforma, siamo molto grati per i doni spirituali e teologici ricevuti tramite la Riforma; si è trattato di una commemorazione condivisa non solo tra noi ma anche con i nostri partner ecumenici a livello mondiale. Allo stesso tempo, abbiamo chiesto perdono per le nostre colpe e per il modo in cui i cristiani hanno ferito il Corpo del Signore e si sono offesi reciprocamente nei cinquecento anni dall’inizio della Riforma ad oggi.
Noi, luterani e cattolici, siamo profondamente riconoscenti per il cammino ecumenico che abbiamo intrapreso insieme negli ultimi cinquant’anni. Questo pellegrinaggio, sostenuto dalla nostra comune preghiera, dal culto divino e dal dialogo ecumenico, ha condotto al superamento dei pregiudizi, all’intensificazione della comprensione reciproca e al conseguimento di accordi teologici decisivi. Alla luce di così tante benedizioni lungo il nostro percorso, solleviamo i nostri cuori nella lode del Dio uno e trino per la grazia ricevuta.
Oggi vogliamo ricordare un anno segnato da eventi ecumenici di incisiva importanza, un anno iniziato il 31 ottobre 2016 con la preghiera congiunta luterana-cattolica celebrata a Lund, in Svezia, alla presenza dei nostri partner ecumenici. Papa Francesco e il Vescovo Munib A. Younan, allora Presidente della Federazione Luterana Mondiale, durante questo servizio liturgico da loro presieduto, hanno firmato una dichiarazione comune, impegnandosi a proseguire insieme il cammino ecumenico verso l’unità per la quale Cristo ha pregato (cfr. Giovanni 17,21). Lo stesso giorno, anche il nostro servizio comune a favore di coloro che sono bisognosi del nostro aiuto e della nostra solidarietà è stato rafforzato grazie ad una lettera di intenti firmata dalla Caritas Internationalis e dalla Lutheran World Federation World Service.
Papa Francesco e il Presidente Younan hanno dichiarato insieme: “Molti membri delle nostre comunità aspirano a ricevere l’Eucaristia ad un’unica mensa, come concreta espressione della piena unità. Facciamo esperienza del dolore di quanti condividono tutta la loro vita, ma non possono condividere la presenza redentrice di Dio alla mensa eucaristica. Riconosciamo la nostra comune responsabilità pastorale di rispondere alla sete e alla fame spirituali del nostro popolo di essere uno in Cristo. Desideriamo ardentemente che questa ferita nel Corpo di Cristo sia sanata. Questo è l’obiettivo dei nostri sforzi ecumenici, che vogliamo far progredire, anche rinnovando il nostro impegno per il dialogo teologico.”
Tra le benedizioni sperimentate durante l’anno della Commemorazione, vi è il fatto che, per la prima volta, luterani e cattolici hanno visto la Riforma da una prospettiva ecumenica. Ciò ha reso possibile una nuova comprensione di quegli eventi del XVI secolo che condussero alla nostra separazione. Riconosciamo che, se è vero che il passato non può essere cambiato, è altrettanto vero che il suo impatto odierno su di noi può essere trasformato in modo che diventi un impulso per la crescita della comunione ed un segno di speranza per il mondo: la speranza di superare la divisione e la frammentazione. Ancora una volta, è emerso chiaramente che ciò che ci accomuna è ben superiore a ciò che ci divide.
Siamo lieti che la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, firmata solennemente dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa romano-cattolica nel 1999, sia stata firmata anche dal Consiglio Metodista Mondiale nel 2006 e, durante questo anno di Commemorazione della Riforma, dalla Comunione Mondiale delle Chiese Riformate. Oggi stesso, la Dichiarazione viene accolta e recepita dalla Comunione Anglicana nel corso di una solenne cerimonia nell’Abbazia di Westminster. Su questa base, le nostre comunità cristiane possono costruire un sempre più stretto legame di consenso spirituale e di testimonianza comune al servizio del Vangelo.
Guardiamo con soddisfazione alle numerose iniziative di preghiera comune e di culto divino che luterani e cattolici hanno condiviso insieme ai loro partner ecumenici in varie parti del mondo, così come agli incontri teologici e alle importanti pubblicazioni che hanno dato sostanza a questo anno di Commemorazione.
Con uno sguardo rivolto al futuro, ci impegniamo a proseguire il nostro cammino comune, guidati dallo Spirito di Dio, verso la crescente unità voluta dal nostro Signore Gesù Cristo. Con l’aiuto di Dio e in uno spirito di preghiera, intendiamo discernere la nostra interpretazione di Chiesa, Eucaristia e Ministero, sforzandoci di giungere ad un consenso sostanziale al fine di superare le differenze che sono tuttora fonte di divisione tra di noi. Con profonda gioia e gratitudine, confidiamo nel fatto “che colui il quale ha iniziato in [noi] quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Fil 1,6).