(da L’Osservatore Romano, 9 dicembre 2020)
«L’espressione di una reciproca sincera volontà di riconciliazione» e «un invito a perseguire, in uno spirito di fiducia, di stima e di carità reciproche, il dialogo»: queste parole sono tra le più significative della Dichiarazione comune sottoscritta da Paolo VI e dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Atenagora, in occasione della cerimonia, il 7 dicembre 1965, con la quale si procedeva alla contemporanea e reciproca rimozione delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli. Con questo atto venivano cancellate le scomuniche pronunciate oltre 900 anni prima, ma sempre valide, il 16 luglio 1054 dai legati pontifici inviati da Leone ix nella capitale dell’Impero bizantino per ottenere l’obbedienza ad alcune questioni dogmatiche contro Michele Cerulario, l’allora Patriarca di Costantinopoli; il 24 luglio dello stesso anno il Sinodo della Chiesa di Costantinopoli ne aveva pronunciate contro gli stessi legati e, di fatto, contro il Pontefice romano per riaffermare l’ortodossia delle posizioni e della figura del Patriarca Cerulario. Queste scomuniche, che non erano altro che l’ultima puntata della lotta per la definizione dei criteri con i quali stabilire l’autorità sulla Chiesa universale, hanno segnato i rapporti non solo tra i cristiani per la valenza politica che le scomuniche avevano assunto anche prima di essere pronunciate, mentre cresceva il clima di tensione tra Roma e Costantinopoli.
La cerimonia della reciproca rimozione si svolse contemporaneamente a Roma, alla vigilia della conclusione del concilio Vaticano II, di fronte a tutti i Padri conciliari, e a Costantinopoli, alla presenza del Sinodo proprio per sottolineare come questo atto non era un’iniziativa personale di due testimoni del Vangelo, ma un passo ufficiale della Chiesa di Roma e della Chiesa di Costantinopoli che insieme decidevano di compiere un gesto di fraternità, nel reciproco perdono, dopo secoli di scontri, di condanne e di silenzi. Un gesto che conteneva in sé un profondo valore simbolico, che andava ben oltre il significato teologico, proprio per il peso che le scomuniche del 1054 avevano assunto nelle relazioni tra cristiani nel corso dei secoli: erano stati celebrati due concili — quello di Lione (1274) e quello di Ferrara-Firenze (1439) — proprio per superare le divisioni che erano state determinate dalle scomuniche che pure avevano fotografato una situazione di tensioni e di sospetti che si era venuti creando nel corso dei secoli tra tradizioni, che avevano assunto forme particolari, pur radicate su un comune patrimonio dottrinale, a causa dei contesti geopolitici tanto diversi con i quali i cristiani si erano dovuti confrontare in Oriente e in Occidente. Sulle forme assunte dalle tradizioni cristiane nel primo millennio ci si è a lungo interrogati, spesso cercando giustificazioni storiche a dichiarazioni dottrinali anche se, negli ultimi decenni, soprattutto in ambito ecumenico, si sono aperte nuove prospettive per la lettura del primo millennio del cristianesimo, nonostante i limiti nella ricostruzione storico-teologica, determinati dalla disponibilità delle fonti, così diversa da luogo a luogo, da secolo a secolo. Al di là delle letture apologetiche che sono state date del 1054, era evidente che questo momento rappresentava una ferita per il corpo della Chiesa, tanto che nel corso dei secoli, oltre ai due Concili nominati, conclusi, soprattutto il secondo, con la sottoscrizione di testi di unione che hanno rappresentato un punto di riferimento per tanti cristiani, non erano mancate le voci di coloro che invocavano la ricostruzione della comunione tra Occidente e Oriente; queste voci, largamente minoritarie, erano state costrette a convivere, fino a venirne soffocate, con quelle, molto più rumorose, di coloro che preferivano leggere il 1054 come un «muro» con il quale tenere separate la verità e l’errore, rivendicando una storia di purezza che non teneva conto della molteplicità di tradizioni formatasi già nel primo millennio e diffuse nel secondo millennio della presenza cristiana anche in considerazione dei nuovi orizzonti missionari che avevano portato il cristianesimo a assumere una dimensione globale. Al rafforzamento di questo «muro» avevano contribuito anche tante vicende politiche, dalla quarta Crociata (1204) al «nazionalismo esasperato» dell’età contemporanea, solo per citarne due tra le più emblematiche anche per la loro attualità, offrendo nuove argomentazioni a coloro che pensavano all’unità in termini di uniformità nella sottomissione.
La cerimonia del 7 dicembre 1965 è stata uno dei primi frutti della nuova stagione nei rapporti tra Roma e Costantinopoli che si era aperta con l’incontro tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora, a Gerusalemme, il 5 gennaio 1964, in un viaggio tanto fecondo per il cammino ecumenico, come testimoniano i tanti passi compiuti da cattolici e ortodossi per superare le divisioni che ancora impediscono la piena e visibile comunione: «a cinquant’anni dall’abbraccio di quei due venerabili Padri, riconosciamo con gratitudine e rinnovato stupore come sia stato possibile, per impulso dello Spirito Santo, compiere passi davvero importanti verso l’unità», come ha ricordato Papa Francesco in occasione del viaggio in Terra Santa, nel maggio 2014, per celebrare, insieme al Patriarca Bartolomeo, il 50° anniversario di quell’incontro.
Molto della cerimonia del 7 dicembre, senza voler togliere niente al coraggio di Atenagora, che si muoveva in un mondo ortodosso diviso al suo interno, anche per la presenza di tanti ortodossi all’interno dell’impero sovietico, si deve a Paolo VI che, con le sue parole e i suoi gesti, aveva chiaramente indicato alla Chiesa, a partire dai Padri riuniti a Roma per il concilio Vaticano II, quanto prioritaria egli considerasse la ricerca delle strade per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa, così da mettere fine al tempo delle divisioni e delle contrapposizioni. Nella ricerca di queste strade si manifestava il desiderio di vivere la piena comunione con tutti i fratelli e le sorelle in Cristo, a cominciare da coloro che condividevano la propria confessione, senza creare alcun rapporto privilegiato, come alcuni tentarono di sostenere, anche alla luce dei rapporti tra Roma e Costantinopoli o tra Roma o Canterbury, aggiungendo divisioni a divisioni, mentre invece era il comandamento evangelico dell’amore per l’unità che guidava Papa Montini. In questo contesto si inserisce la cerimonia della contemporanea e reciproca cancellazione delle scomuniche che tanto aiutò i cristiani a considerare il passato non semplicemente come un peso nel cammino ecumenico, ma come una memoria da conoscere per promuovere una riconciliazione, radicata sulla conversione dei cuori, dal momento che «più stretta sarà la comunione [dei cristiani] col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (Unitatis redintegratio n. 7).
di Riccardo Burigana