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BARTOLOMEO, Messaggio per la Santa Pasqua, Fanar, 2 maggio 2021

     Portata a compimento la Quaresima utile all’anima e adorando la Passione e Croce del Signore, ecco siamo divenuti oggi partecipi della Sua gloriosa Resurrezione, illuminati dalla festa e acclamanti con gioia l’annuncio di salvezza per il mondo: Cristo è risorto!
Ciò che crediamo, ciò che amiamo, ciò che speriamo noi Ortodossi è legato alla Pasqua, da essa attinge la sua forza vitale, per essa si interpreta e si formulano le definizioni. La Resurrezione di Cristo è la risposta del Divino amore alla agonia e alla attesa dell’uomo, ma anche alla “ardente attesa” del creato che geme. In essa è stata rivelata la definizione del “facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza” [Gen. 1,26] e “vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” [Gen. 1,31].
Cristo è “la nostra Pasqua” [1 Cor. 5,7], “la nostra resurrezione”. Se la caduta fu il respingimento del cammino dell’uomo verso il “a somiglianza”, nel Cristo risorto si apre di nuovo l’”amato di Dio”, la via verso la divinizzazione per grazia. Si realizza il “grande miracolo”, che cura la “grande ferita”, l’uomo. Nella emblematica immagine della Resurrezione nel Monastero di Chora osserviamo il Signore della gloria che scende “fino alle stanze dell’Ade” e abbatte la potenza della morte, per levarsi portatore di vita alla tomba, facendo risorgere insieme i capostipiti dell’umanità, e in essi tutto il genere umano, dal principio fino alla fine dei tempi, come nostro liberatore dalla schiavitù dell’avversario. Nella Resurrezione si manifesta la vita in Cristo come emancipazione e libertà. “Nella libertà… Cristo ci ha liberati” [Gal. 5,1]. Il contenuto, l’”ethos” di questa libertà, che deve essere vissuta qui in maniera adatta a Cristo, prima che trovi compimento nel Regno celeste, è l’amore, la quintessenza vitale della “nuova creazione”. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà; soltanto non usate questa libertà per dare un’occasione alla carne, ma servite gli uni gli altri per mezzo dell’amore” [Gal. 5,13]. La libertà del fedele, fondata sulla Croce e sulla Resurrezione del Salvatore, è un cammino verso le cose alte e verso il fratello, è “fede che opera mediate l’amore” [Gal. 5,6]. È uscita dalla “schiavitù dell’Egitto” e dalle molteplici ostilità, un superamento, donato da Cristo, dell’esistenza introversa e limitata, speranza di eternità che riumanizza l’uomo.
Festeggiando la Pasqua, confessiamo nella Chiesa, che il Regno di Dio “è già stato instaurato, ma non è stato ancora compiuto” [GEORGE FLOROVSKIJ, Santa Scrittura, Chiesa, Tradizione]. Alla luce della Resurrezione le cose terrene acquisiscono un nuovo significato, in quanto sono trasfigurate e trasfiguranti. Nulla è semplicemente “dato”. Ogni cosa si trova in un movimento verso la propria fine escatologica. Questo “irrefrenabile impeto” verso il Regno, che viene vissuto soprattutto nella sinassi eucaristica, ripara il popolo di Dio, da una parte dalla indifferenza per la storia e per la presenza del male in essa e, dall’altra, dal dimenticare la parola del Signore “il mio Regno non è di questo mondo” [Gv. 18,36], la differenza cioè tra il “già” e il “non ancora” della venuta del Regno, in accordo anche col teologicamente corretto “Il Re è giunto, il Signore Gesù, e il suo Regnò ha da venire” [GEORGE FLOROVSKIJ, opc.].
Caratteristica principale della libertà del fedele, data da Dio, è l’ardente palpito pasquale, la sua vigilanza e la sua dinamicità. Il suo carattere, in quanto dono della grazia, non solo non circoscrive, ma fa emergere il nostro proprio consenso per il dono e rafforza il nostro cammino e la nostra inversione nella nuova libertà, che include anche il ristabilimento della relazione divenuta ostile dell’uomo con il creato. Colui che è libero in Cristo non rimane intrappolato in “assoluti terreni”, come “gli altri che non hanno speranza” [1 Tess. 4,13]. La nostra speranza è Cristo, l’esistenza che si completa in Lui, lo splendore e la inondazione di luce dell’eternità. I confini biologici della vita non delimitano la sua verità. La morte non è la fine della nostra esistenza. “Non temere la morte; infatti, la morte del Salvatore ce ne ha liberati; trattenuto da essa, ha posto fine ad essa. Ha spogliato l’Ade colui che è sceso nell’Ade” [GIOVANNI CRISOSTOMO, Logos Catechetico sul santo e splendido giorno della gloriosa e salvifica Resurrezione di Cristo nostro Dio]. La libertà in Cristo è “l’altra formazione” [GREGORIO IL TEOLOGO, Parole etiche] dell’uomo, assaggio e prefigurazione, compimento e pienezza della Divina Economia nell’”ora e sempre” dell’ultimo giorno, quando i “benedetti del Padre” vivranno faccia a faccia con Cristo, “guardandolo ed essendone guardati e godendo della incessante letizia di lui” [Giovanni Damasceno, Edizione precisa della fede ortodossa.]
La Santa Pasqua non è semplicemente una festa religiosa, anche se è la più grande per noi Ortodossi. Ogni Divina Liturgia, ogni preghiera e supplica dei fedeli, ogni festa o memoria di Santi e di Martiri, l’onore delle sante icone, l’”abbondanza della gioia” [2 Cor. 8,2] dei Cristiani, ogni atto di amore sacrificale e di fratellanza, la pazienza nelle afflizioni, la speranza che non delude del popolo di Dio, sono una festa di libertà, emettono una luce pasquale ed emanano il profumo della Resurrezione.
Con questo spirito, glorificando il Salvatore del mondo che ha calpestato la morte con la morte, inviamo a tutti voi onoratissimi fratelli nella Signoria tutta del Signore e amatissimi figli della Madre Chiesa, un saluto festoso, benedicendo con gioia assieme a voi, con una sola bocca ed un sol cuore, Cristo per l’eternità.

Luce che illumina le genti. La Pasqua ortodossa. Intervista con il patriarca ortodosso di Gerusalemme Teofilo III

(Da L’Osservatore Romano, 30/04/2021)

«È l’evento liturgico più conosciuto e seguito qui nella Città Santa» esordisce Sua Beatitudine il patriarca Teofilo iii, primate della Chiesa ortodossa di Gerusalemme, parlando del rito del “Sacro Fuoco” che, come ogni anno, caratterizzerà la liturgia del Sabato santo — il prossimo 1° maggio secondo il calendario dei cristiani di oriente — attirando migliaia di entusiasti pellegrini.

Come spiega questa persistente fedeltà nel corso dei secoli al rito?

La cerimonia del Sacro Fuoco trova le sue origini agli albori della Chiesa quando le pratiche liturgiche cominciarono a svilupparsi, e costituisce una delle esperienze più antiche della nostra tradizione nella Chiesa di Gerusalemme. Abbiamo evidenza di ciò dai racconti di viaggio dei primi pellegrini in Terra Santa, come ad esempio Egeria. Anno dopo anno i cristiani locali e i pellegrini si raccolgono in questo evento per pregustare la gioia della Resurrezione, nel rito che nella nostra tradizione chiamiamo “La prima Resurrezione”. Un rito che ripercorre l’esperienza dell’intensa luce scaturita dalla tomba, e di cui furono testimoni le donne venute con la mirra al sepolcro, come racconta san Matteo nel suo Vangelo: «Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro. Ed ecco che vi fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve» (Matteo, 28, 1-3). Questa è l’esperienza della Luce increata che rifulge dal Santo Sepolcro e che è simbolizzata dalle candele accese che diffondono la luce non solo dentro la chiesa, ma attraverso l’intero mondo. In ogni chiesa ortodossa, all’inizio della liturgia pasquale, il popolo dei credenti viene a ricevere la luce tramite la candela accesa dalle mani di un prete, una luce che gli è arrivata da Gerusalemme. La testimonianza del Sacro Fuoco è continuata senza interruzioni anche nei tempi più difficili e durante le persecuzioni dei secoli passati. Sono molte le ragioni dell’importanza che il rito ha nella vita religiosa di molti credenti. Innanzitutto esso è un potente segno di continuità della fede della Chiesa nell’evento della Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Dallo stesso luogo in cui ogni anno il Sacro Fuoco emerge dalle tenebre, il Signore emerse dalle tenebre dei tre giorni di sepoltura, per annunciare che la morte è stata sconfitta per sempre, e che la vita nuova della Resurrezione è ora aperta a tutti. La fiamma viva è testimone del Signore vivo, il «Padre della Luce» (Giacomo, 1, 17). Cristo stesso disse di sé: «Io sono la luce del mondo. Chiunque mi segue non camminerà nel buio, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12). Dunque dobbiamo ricordare che il Sacro Fuoco ci fa ritornare il mistero della vita divina in Dio e della nostra realtà umana, cioè lo scopo ultimo della nostra creazione: divenire «partecipi della Sua natura divina» (2 Pietro, 1-4). La nostra stessa vita è un grande e sacro mistero, la vita donata alla famiglia umana nell’atto della creazione. Noi siamo attirati al mistero della vita divina di Dio in molti modi già in questa vita terrena, nei sacramenti e in special modo nella divina eucarestia. Il cuore umano è profondamente sensibile all’iniziativa di Dio. E questa iniziativa divina trova il suo focus più grande proprio qui nella Terra Santa, dove siamo testimoni viventi della nostra storia sacra. E dove anche vediamo i simboli o le evidenze di questo straordinario incontro tra l’uomo e Dio, come appunto accade col rito del Sacro Fuoco nel luogo dove è veramente avvenuta la Resurrezione; e dove il popolo di Dio è spiritualmente mosso, e naturalmente portato ad essere vicino e testimoniare lo straordinario evento. Ma c’è anche dell’altro. La cerimonia del Sacro Fuoco è un evento veramente ecumenico, nel senso che è un evento che unisce non solo tutti i cristiani ma anche tutti gli uomini di buona volontà, senza distinzioni, in tutto il mondo, a partire dalle nostre comunità locali. È un momento importante per noi cristiani ortodossi, ma anche per tutti i cristiani che vi partecipano: armeni, copti e siriani, così come cattolici romani, anglicani, luterani e perfino gente di altre fedi religiose che ogni anno non vogliono mancare la loro presenza. Il Sacro Fuoco distribuisce generosamente la sua luce a tutti, così che tutti coloro che desiderano riceverla possano conoscere l’illuminazione, la vera Luce increata che arriva nelle nostre menti e nei nostri cuori. In fondo il Sacro Fuoco non è altro che il riflesso della fiamma che brucia nel cuore di ogni persona che è in cerca di Dio. Ecco, credo che per questi motivi non ci si possa meravigliare della grande forza di attrazione ed ispirazione che questo rito esercita su migliaia di fedeli.

Qual è l’interpretazione che la tradizione teologica ortodossa dà di questa cerimonia? Vi è anche un significato sovrannaturale?

Avvenendo la mattina del Sabato santo, il giorno prima della Pasqua, il rito del Sacro Fuoco è principalmente un’anticipazione della Resurrezione di Cristo. Tanto nella tradizione orientale che in quella occidentale l’idea stessa del Sacro Fuoco è simbolo della nuova vita nella resurrezione, e così anche per la cerimonia. Così come il fuoco brucia e splende dalla tomba, così anche il Signore Gesù splende nella mattina del giorno di Pasqua. In molti casi le lampade accese col sacro fuoco nella basilica del Santo Sepolcro vengono trasportate in altri paesi dove sono attese per iniziare la liturgia pasquale. Ciò vale anche per la dimensione sovrannaturale, perché il rito, portandoci vicino al mistero della Resurrezione, suscita la conversione dello spirito. Rende la Resurrezione più reale ed immediata ai nostri occhi e ci rassicura sull’affidabilità dell’amore di Dio per noi, incoraggiandoci ad un maggiore impegno nella vita spirituale. Come ci dice la Bibbia, «Dio non ci lascia ed abbandona mai» (Deuteronomio, 31, 6; Ebrei, 13, 5) e questo — che è presente tanto nelle scritture ebraiche quanto in quelle cristiane — è una testimonianza potente della loro verità universale. La nostra partecipazione alla cerimonia del Sacro Fuoco è un’esperienza di incontro tra umano e divino e in tal senso è simile all’incontro che sperimentiamo nella santa eucarestia, dove ci uniamo al corpo e sangue di Cristo.

Qual è la sua opinione sulla dimensione ecumenica del rito del Sacro Fuoco?

Come già accennato il rito è fondamentalmente ecumenico nel senso più pieno del termine. È importante ricordare tre cose. Innanzitutto è un segno di unità per gli ortodossi, non solo per le nostre Chiese sorelle, ma anche per le nazioni ortodosse che sono unite tra loro da una naturale tradizione religiosa. E infatti registriamo ogni anno la volontà di queste nazioni di partecipare al rito o di ricevere il fuoco nelle loro sedi. Ma il fuoco è anche un segno religioso universale, ci ricorda la condivisione della vita e dell’amore di Dio, che come il fuoco viene riversato ad ogni essere umano senza che per questo diminuisca. Noi chiamiamo questo “Il fuoco sempre vivo”, la cui fiamma brucia incessantemente nel Santo Sepolcro senza interruzione, anche nei tempi di difficoltà o di guerra. Per questo il suo vero significato è unire tutti coloro che col fuoco entrano in contatto. E dobbiamo infine ricordare la vocazione all’ecumenismo della chiesa del Santo Sepolcro, dove avviene il rito, che è una vocazione unica. Una vocazione e missione che non riguarda solo le differenti confessioni e chiese cristiane, ma l’intera razza umana di qualunque fede e pratica religiosa. Questa chiesa è la casa dove da secoli viviamo insieme la medesima vita, dove, differentemente da ogni altra chiesa, vediamo all’opera l’oikoumene, dove, come dice la Scrittura, si raccoglie una grande moltitudine che nessuno può contare, da ogni nazione, da tutti i popoli, tribù e lingue, che qui vengono per porsi di fronte al Trono e all’Agnello (Apocalisse, 7, 9) E questo è un miracolo anche più grande del Sacro Fuoco, perché tutti i miracoli sono tali in quanto vanno oltre se stessi, verso Dio e i suoi fini. Anche quest’anno, come ogni anno, le confessioni cristiane che con noi condividono la custodia e il servizio nella chiesa del Santo Sepolcro si uniranno a noi, non già come meri osservatori ma in comunione di preghiera e ringraziamento per la Resurrezione. Questa è la cerimonia delle cerimonie per la Chiesa di Gerusalemme. Ed è il motivo per cui questo specifico sabato è conosciuto in tutte le lingue della regione (greco, arabo ed ebraico) come il “Sabato della Luce” e così è ricordato nei calendari delle fedi abramitiche. Dunque il Sacro Fuoco non è solo per gli ortodossi, ma è un dono della Chiesa ortodossa al mondo, un mondo che vive ora in grande difficoltà e confusione, un dono che mostra la vera luce che illumina ognuno (Giovanni, 1, 9).

Sua Beatitudine qual è il suo parere circa la possibilità di unificare la data della Pasqua per tutte le confessioni cristiane?

Per me questo della celebrazione di un’unica Pasqua è un punto molto importante. Dobbiamo considerare questo aspetto alla luce del percorso ecumenico che stiamo seguendo. Il vero traguardo di questo viaggio è di poter tornare tutti noi seguaci di Cristo a bere dallo stesso calice. La piena unità sacramentale, nella fede e nell’amore, deve essere il nostro traguardo. Nei tempi recenti questo traguardo si è un po’ appannato, ma noi dobbiamo rimetterlo in cima a tutti i nostri impegni. Solo in questo modo avremo la possibilità di adempiere alle parole che nostro Signore Gesù Cristo rivolse al Padre quando disse «Che tutti siano una cosa sola» (Giovanni, 17, 23). Questa unità nella fede e nella vita non è importante solo per le nostre chiese, ma come nostra comune testimonianza all’intero mondo. Dobbiamo sempre ricordare che il Signore ha pregato per l’unità dei suoi discepoli perché, come disse, «il mondo riconosca che tu mi hai mandato, e che tu li hai amati come hai amato me». (Giovanni, 17, 23). È in questo contesto che dobbiamo lavorare alla riunificazione della data della Pasqua. Non è una questione di convenienza ma di testimonianza della verità e potenza della Resurrezione. Tutti i cristiani partecipano di questa comune e fondamentale convinzione: che Cristo è risorto dai morti e ha schiacciato la morte con la sua morte dando vita a quelli che erano nella tomba (troparion pasquale). Perciò la condivisione di una medesima data per la Pasqua sarebbe un grande passo in avanti nella fedeltà alla preghiera del Signore per l’unità dei suoi discepoli. La risposta c’è già. È quella di tornare alla piena accettazione di quanto le Chiese stabilirono nei concili ecumenici. È nel concilio di Nicea del 325 che fu stabilito il calcolo per la data della Pasqua che ancora oggi seguiamo. Quindi se vogliamo affrontare seriamente questo problema della data comune dobbiamo sempre ricordare che la Bibbia è data dalla legge mosaica come dal Nuovo Testamento; che c’è una progressione lineare tra la legge di Mosè e i comandamenti di Cristo. Non abbiamo il diritto di cambiare o confondere la nostra storia sacra, il che significa che la Pasqua cristiana deve sempre e comunque cadere dopo la Pasqua ebraica. Avendo chiaro in mente ciò, siamo pronti a dare il benvenuto ad una data unica di celebrazione della Pasqua. La Pasqua cristiana è il vero fondamento della fede cristiana, e il culmine della fede cristiana è la Resurrezione: come leggiamo nelle parole di san Paolo «Se non c’è resurrezione dai morti, allora Cristo non è resuscitato; e se Cristo non è resuscitato allora la nostra proclamazione è vana, e anche la vostra fede è vana» (1 Corinzi, 15, 13-14).

di Roberto Cetera

Alla realizzazione dell’intervista ha collaborato Francesco Patton, Custode di Terra Santa

Theophilos e la preghiera per l’unità. Lettera di Quaresima del patriarca ortodosso di Gerusalemme

(da L’Osservatore Romano, 03/03/2021)

di Gianni Valente

Un nuovo incontro tra i patriarchi e i primati delle Chiese ortodosse, da svolgersi entro il 2021, per affrontare da fratelli i contrasti insorti negli ultimi anni tra le compagini ecclesiali che appartengono all’ortodossia. La proposta, formulata in maniera ancora velata, sottoforma di auspicio, si rintraccia tra le righe della lettera aperta che Theophilos III, patriarca greco ortodosso di Gerusalemme, ha voluto rivolgere a tutti i patriarchi e primati delle Chiese ortodosse all’inizio del tempo di Quaresima. Un’iniziativa volta a cercare rimedi e cure alle ferite che negli ultimi anni hanno lacerato la comunione delle Chiese ortodosse. La crisi pandemica che ha colpito il mondo — fa capire Theophilos — rende ancora più urgente mettere da parte accuse e recriminazioni tra fratelli, per confessare insieme la guarigione promessa da Cristo all’umanità sofferente.

Incomprensioni e contrasti in seno all’ortodossia sono iniziati con la mancata partecipazione di alcune Chiese ortodosse al concilio panortodosso di Creta (2016) e si sono incancreniti dopo che il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il 6 gennaio 2019, ha formalmente riconosciuto l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina guidata dal Metropolita Epiphany, osteggiata dal patriarcato di Mosca, che per reazione ha sospeso la comunione eucaristica con il patriarcato di Costantinopoli e con le altre Chiese ortodosse (patriarcato di Alessandria, Chiesa di Grecia e Chiesa di Cipro) che col tempo hanno riconosciuto l’autocefalia ucraina.

Proprio un anno fa, e proprio su invito del patriarca Theophilos, si era svolta una riunione di capi e delegazioni di diverse Chiese ortodosse per provare a risolvere i problemi sorti in seno all’ortodossia. A quell’“incontro fraterno”, oltre a Theopilos, avevano partecipato solo due altri primati, il patriarca russo Kirill e quello di Serbia, Irinej. Nella lettera appena pubblicata, che porta la data del 24 febbraio, Theophilos prende le mosse proprio dall’incontro di Amman di fine febbraio 2020: «Un anno fa — si legge nella missiva — ci siamo riuniti nel regno hascemita di Giordania per rafforzare i nostri rapporti fraterni nel dialogo d’amore per l’unità delle Chiese ortodosse autocefale. Due giorni di preghiere e di conversazioni fraterne hanno accresciuto la nostra determinazione a proseguire il cammino di approfondimento della nostra comunione, e a rispondere insieme alle urgenze che dobbiamo affrontare».

Tra le emergenze, il patriarca ortodosso di Gerusalemme chiama in causa in primis l’attuale congiuntura storica, così duramente segnata dalla pandemia. Un anno fa, ad Amman, si legge nel messaggio, «nessuno di noi immaginava che il nostro incontro si stava tenendo sulla soglia di una catastrofe sanitaria mondiale, di dimensioni mai viste prima nel tempo delle nostre vite». Theophilos ricorda Irinej, il patriarca di Serbia scomparso a causa del covid-19, «che era con noi in Giordania, e ora riposa nel Signore». Poi aggiunge che «Dio è misericordioso, e ha dato alle sue creature conoscenze e strumenti per sviluppare medicine e vaccini per porre fine a questa pandemia mortale». Proprio per questo, adesso che è possibile sperare in giorni più sereni nel prossimo futuro, «ci siamo ricordati del nostro comune impegno a riunirci per pregare in spirito fraterno. Preghiamo — aggiunge Theophilos, formulando la sua proposta in forma di augurio — che questo sia reso possibile più avanti, nel corso di questo anno».

Nel suo appello, impreziosito con citazioni delle lettere di san Paolo, il patriarca indica anche la preghiera di intercessione reciproca e la penitenza come gli unici rimedi utili per sanare le ferite e ritrovare la concordia tra fratelli. «Prego ogni giorno ricordando ciascuno di voi, offrendo lodi, ringraziamenti e intercessioni, riconoscendo che “la Sua grazia è sufficiente per noi, e si manifesta in pienezza nella nostra debolezza”. Continuiamo a sostenerci l’un l’altro nella preghiera — prosegue il patriarca di Gerusalemme — e a cercare vie per far sì che le nostre Chiese locali possano portare speranza, benedizione e gioia le une alle altre. Come dice San Paolo, “portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo”. Ci uniamo in preghiera anche con il nostro fratello, Sua Santità il patriarca Bartolomeo, con i primati ortodossi nostri compagni, e continuiamo a servire insieme la crescita della nostra comunione».

Secondo Theophilos, la pandemia interpella in modo speciale i capi delle Chiese ortodosse, sollecitando tutti a «guardare alle nostre comunità, che Dio ci ha chiamati a servire, per sollevare i cuori dalla disperazione e volgerli al Signore, che ci dà speranza. Noi sappiamo che “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il Suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di Lui”».

A chiusura della sua lettera, come sigillo oltremodo eloquente, il patriarca porge alla riflessione dei primati ortodossi il brano di un inno tratto dal Triodion, libro quaresimale della liturgia bizantina: «Fratelli, non pregate come il fariseo, perché chi esalta se stesso sarà umiliato. Umiliamo noi stessi davanti a Dio, e con lacrime e singhiozzi ripetiamo come il pubblicano: Signore, abbi pietà di noi peccatori».

Eletto il nuovo patriarca di Serbia. Porfirio era metropolita di Zagabria e Lubiana

(da L’Osservatore Romano, 19/02/2021)

di Giovanni Zavatta

«Axios!». Degno! Le campane della cattedrale di San Sava a Belgrado hanno suonato a distesa nel pomeriggio di ieri, 18 febbraio, per annunciare l’elezione del nuovo patriarca di Serbia: il metropolita di Zagabria e Lubiana (eparchia della Chiesa ortodossa serba in Croazia e Slovenia), Porfirio, 60 anni, prende il posto di Ireneo, morto il 20 novembre scorso dopo essersi ammalato di covid-19. Porfirio, al secolo Prvoslav Perić, quarantaseiesimo patriarca di Serbia, riceve il titolo di arcivescovo di Peć e metropolita di Belgrado e Karlovci. Nella mattina di oggi, 19 febbraio, si è svolta l’intronizzazione nella cattedrale di San Michele Arcangelo.

Nato il 22 luglio 1961 a Bečej, nella regione della Vojvodina, dopo il liceo a Novi Sad ha frequentato gli studi di archeologia presso la Facoltà di filosofia all’Università di Belgrado. Iscrittosi alla Facoltà di teologia della Chiesa ortodossa serba, si è laureato nel 1987. Nel frattempo, l’11 aprile 1986, il suo padre spirituale, l’attuale vescovo di Bačka, Ireneo (Bulović), lo aveva consacrato monaco. Nello stesso anno, il 23 giugno, il futuro patriarca Paolo lo elevò al grado di ierodiacono nel monastero della Santissima Trinità a Musutište. Ha quindi frequentato, trasferendosi ad Atene, gli studi post-laurea in teologia e conseguito il titolo di dottore in scienze. Ordinato ieromonaco il 21 novembre 1990, è divenuto abate del monastero dei Santi Arcangeli a Kovilj contribuendo alla rinascita non solo spirituale di quel luogo (su iniziativa di Porfirio sono nate delle comunità terapeutiche per la cura delle dipendenze). Successivamente è stato eletto vescovo di Jegar, nel 1999, e metropolita di Zagabria e Lubiana il 26 maggio 2014. È professore associato presso la Facoltà teologica ortodossa dell’Università di Belgrado; parla inglese, tedesco, russo e greco (profondamente legato a quella cultura e all’esperienza liturgica delle comunità del Monte Athos). Ha partecipato inoltre alla riorganizzazione della vita religiosa nell’esercito serbo ed è attivo nella raccolta di borse di studio a favore degli studenti meritevoli. Si è distinto infine, ricevendo riconoscimenti in patria, nella promozione del dialogo ecumenico e interreligioso.

In una lettera, scritta in greco, il patriarca ecumenico Bartolomeo, arcivescovo di Costantinopoli, si è congratulato con Porfirio augurandogli un mandato «lungo, illuminato e benedetto dallo Spirito santo», certo delle sue capacità umane e spirituali per assolvere il gravoso incarico. Il patriarca di Mosca, Cirillo, ha espresso (anche telefonicamente) le sue felicitazioni sottolineando che «nei tempi difficili che stiamo vivendo le nostre Chiese, come sempre, si sosterranno a vicenda e combatteranno insieme per la fede trasmessa ai santi». Anche il presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, cardinale Kurt Koch, ha scritto al nuovo patriarca esternando le sue più sentite speranze di «portare avanti la nostra collaborazione, già proficua con i precedenti patriarchi, e di cementare il nostro impegno a favore delle relazioni tra le nostre Chiese». L’auspicio è di «continuare a lavorare insieme in diversi campi della vita ecclesiale e culturale, consci che lo scopo ultimo del dialogo è la realizzazione del desiderio principale di Gesù Cristo, nostro Signore, ovvero la piena comunione di tutti i suoi discepoli».

Libano, al via il Santo Sinodo annuale della Chiesa maronita

Papa Francesco e il Patriarca maronita Bechara Boutros Rai


 

fonte: vaticannews (di Lisa Zengarini)

Proseguono dal 26 ottobre presso la sede patriarcale di Bkerké, in Libano, i lavori del Santo Sinodo annuale della Chiesa maronita, presieduti dal Patriarca cardinale Béchara Raï. All’ordine del giorno – riporta il quotidiano libanese l’Orient-le-jour – l’elezione di tre nuovi vescovi, oltre a questioni pastorali e altre riguardanti l’attuale congiuntura politica del Paese. La sessione è stata preceduta da un ritiro spirituale di sei giorni.

Tematiche sociali, religiose e politiche

Le sedi episcopali da coprire sono quelle di Kornet Chehwan, dopo la morte dell’arcivescovo Camille Zeidan, e quelle di Tripoli e Tiro. Le nomine saranno annunciate nella dichiarazione finale al termine della riunione, sabato 31 ottobre.

Durante i lavori il Sinodo esaminerà poi questioni di natura liturgica e quella centrale della formazione dei seminaristi. A questo si aggiungeranno alcuni aspetti relativi alla pastorale sociale nella Chiesa maronita. A tale proposito, il patriarca Raï si è impegnato perché sia adottato un piano globale complementare a quello già operativo nelle istituzioni maronite impegnate in questo settore, con un particolare riferimento a Caritas Libano.

Serve un esecutivo indipendente

Infine, l’assemblea farà il punto sulla situazione del Paese dopo l’incarico, la settimana scorsa, a Saad Hariri per la formazione del nuovo Governo, sulla cui urgenza concordano tutte le parti, considerata la situazione critica in cui versa il Paese. Una necessità sottolineata con forza anche dal cardinale Raï nella prolusione ai lavori: “Il Libano ha bisogno di un esecutivo indipendente, che abbia fra i propri compiti quello di ricostruire l’autorità per mezzo di un processo costituzionale, democratico e pacifico”, ha affermato il patriarca , aggiungendo che il nuovo esecutivo dovrà “essere diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, per combattere la pandemia di Coronavirus (…) e far fronte alla crisi finanziaria e bancaria, (…) alla dilapidazione dei fondi pubblici, all’aumento della corruzione e garantire l’indipendenza della magistratura”.

Il Vescovo Donato alla cerimonia di consegna di un Dottorato honoris causa al patriarca Bartolomeo

 

(a.t.) ROMA – Lo scorso 21 ottobre è stato conferito un Dottorato honoris causa in filosofia a Sua Santità il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, proprio all’indomani dell’incontro di preghiera promosso dalla Comunità di Sant’Egidio in piazza del Campidoglio, subito dopo un pomeriggio di preghiera in cui le varie religioni si erano incontrate in differenti luoghi di Roma per pregare, invocando l’unità e la pace.

Alla cerimonia di conferimento, alla quale sono intervenuti il cardinale Pietro Parolin (Segretario di Stato di Sua Santità), il cardinale Kurt Koch (Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani), il cardinale Peter Turkson (Prefetto del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale), ha preso parte anche il vescovo della nostra Eparchia, S. E. Donato Oliverio, il quale si è intrattenuto a colloquio privato con Sua Santità, rinnovando quello spirito di amicizia e vicinanza che, soprattutto dopo i festeggiamenti del primo centenario dalla istituzione dell’Eparchia da parte di Benedetto XVI che hanno visto la presenza del Patriarca Bartolomeo in Eparchia, è diventato sempre più forte tra il patriarca e l’Eparchia, una realtà di matrice orientale in comunione con il successore di Pietro.

Con questa cerimonia di consegna, avvenuta in occasione della inaugurazione dell’anno accademico 2020-2021 che a causa della emergenza causata dal Covid-19 ha visto una ridotta presenza di partecipanti, il ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori e gran cancelliere dell’Antonianum, fr. Michael Anthony Perry ha consegnato il primo Dottorato in Filosofia per il nuovo indirizzo ecologico, proprio per far risaltare l’impegno ecumenico del patriarca Bartolomeo, e in particolar modo nell’ambito della salvaguardia del creato, un tema che vede ormai da anni le Chiese cristiane impegnarsi e adoperarsi per rispondere sempre più e sempre meglio a quella originaria missione che vede l’uomo impegnato come custode del giardino e delle meraviglie del Creato.

Il patriarca Bartolomeo commenta l’enciclica «Fratelli Tutti»

 

L’intervista di Andrea Tornielli su «L’Osservatore Romano», 20 ottobre 2020, pp. 1/3

 

Santità, qual è stata la sua reazione alla lettura dell’enciclica «Fratelli tutti» di Papa Francesco?

Prima ancora di conoscere l’Enciclica Fratelli Tutti del nostro fratello Papa Francesco, abbiamo avuto la certezza che si sarebbe trattato di un altro esempio del suo incrollabile interesse per l’uomo, “l’amato di Dio”, attraverso la manifestazione della solidarietà verso tutti “gli affaticati e gravati” e i bisognosi, e che avrebbe contenuto proposte concrete per affrontare le grandi sfide del momento, ispirate dalla fonte inesauribile della tradizione cristiana, e che emergono dal suo cuore pieno d’amore. Le nostre aspettative sono state pienamente soddisfatte dopo aver completato l’analisi di questa interessantissima Enciclica, la quale non costituisce semplicemente un compendio o un sommario delle precedenti Encicliche o di altri testi di Papa Francesco, ma il coronamento e la felice conclusione di tutta la dottrina sociale. Siamo completamente d’accordo con l’invito–sfida di Sua Santità ad abbandonare l’indifferenza o anche il cinismo che governa la nostra vita ecologica, politica, economica e sociale in genere, come di unità centrate su sé stesse o disinteressate, e a sognare il nostro mondo come una famiglia umana unita, nella quale siamo tutti fratelli senza eccezioni. Con questo spirito esprimiamo l’auspicio e la speranza che l’Enciclica Fratelli tutti si riveli fonte di ispirazione e di dialogo fecondo attraverso l’assunzione di iniziative determinanti e azioni trasversali su un piano inter-cristiano, interreligioso e pan-umano.

Nel primo capitolo dell’Enciclica si parla delle “ombre ” che persistono nel mondo. Quali sono quelle che la preoccupano di più? E quale speranza ricaviamo dallo sguardo sul mondo che ci deriva dal Vangelo?

Con il suo acuto senso umanistico, sociale e spirituale, Papa Francesco individua e nomina le “ombre” nel mondo moderno. Parliamo di “peccati moderni”, anche se ci piace sottolineare che il peccato originale non è avvenuto nei nostri tempi e nella nostra epoca. Non idealizziamo affatto il passato. Giustamente, tuttavia, siamo turbati dal fatto che i moderni sviluppi tecnici e scientifici hanno rafforzato l’“hybris” dell’uomo. Le conquiste della scienza non rispondono alle nostre fondamentali ricerche esistenziali, né le hanno eliminate. Constatiamo anche che la conoscenza scientifica non penetra nelle profondità dell’anima umana. L’uomo lo sa, ma si comporta come se non lo sapesse.

Il Papa parla anche del persistente divario tra i pochi che possiedono molto e tanti che possiedono poco o nulla…

Lo sviluppo economico non ha ridotto il divario tra ricchi e poveri. Piuttosto, ha stabilito la priorità del profitto, a scapito della protezione dei deboli, e contribuisce all’esacerbazione dei problemi ambientali. E la politica è diventata serva dell’economia. I diritti umani e il diritto internazionale vengono elaborati e servono scopi estranei alla giustizia, alla libertà e alla pace. Il problema dei rifugiati, il terrorismo, la violenza di Stato, l’umiliazione della dignità umana, le moderne forme di schiavitù e l’epidemia di covid-19 stanno ora mettendo la politica davanti a nuove responsabilità e cancellano la sua logica pragmatistica.

Qual è, di fronte a questa situazione, la proposta del cristianesimo?

La proposta di vita della Chiesa è la svolta verso il “una cosa sola è necessaria”, e questa è l’amore, l’apertura all’altro e la cultura della solidarietà delle persone. Davanti al moderno arrogante “uomo-dio” predi – chiamo il “Dio-Uomo”. Di fronte all’economicismo, diamo posto all’economia ecologica e alla attività economica che si basa sulla giustizia sociale. Alla politica del “diritto del più forte”, opponiamo il principio del rispetto degli inalienabili diritti dei cittadini e del diritto internazionale. Di fronte alla crisi ecologica, siamo chiamati al rispetto del creato, alla semplicità e alla consapevolezza della nostra responsabilità di consegnare alla prossima generazione un ambiente naturale integro. Il nostro sforzo per affrontare questi problemi è indispensabile, ma sappiamo che colui che opera attraverso di noi è il Dio amico degli uomini.

Perché l’icona del Buon Samaritano è attuale oggi?

Cristo collega in particolare il “primo e grande comandamento” dell’amore verso Dio con il “secondo simile al primo” comandamento dell’amore per il prossimo (Mt 22, 36–40). E aggiunge: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». E Giovanni il teologo è molto chiaro: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio» (Gv 4, 8). La parabola del Buon Samaritano è vicina alla parabola del Giudizio (Mt 25, 31–46), è (Lc 10, 25–37) il testo biblico, che ci rivela tutta la verità del comandamento dell’amore. In questa parabola, il Sacerdote e il Levita rappresentano la religione, che è chiusa in sé stessa, si interessa solo di mantenere la “legge” inalterata, ignorando e trascurando in modo farisaico le «prescrizioni più gravi della legge» (Mt 23, 23), l’amore e il sostegno al prossimo. Il Buon Samaritano si rivela essere lo straniero filantropo vicino a colui che è stato percosso dai banditi e ferito. Alla domanda iniziale del dottore della legge «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10, 29), Cristo risponde con una domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» (Lc 10, 36). Qui all’uomo non è permesso fare domande, ma gli viene chiesto e viene chiamato ad agire. È sempre necessario far emergere il prossimo, il fratello, davanti e nei confronti del lontano, dello straniero e del nemico. È da notare che nella parabola del Buon Samaritano, in accordo con la domanda del dottore della legge che mette alla prova Cristo «Che devo fare per ereditare la vita eterna» (Luca 10, 25), in risposta ad essa, il reale amore per il prossimo ha un chiaro riferimento soteriologico. Questo è anche il messaggio della pericope del Giudizio.

Su quali basi possiamo considerarci tutti fratelli e perché è importante scoprirsi tali per il bene dell’umanità?

I cristiani della Chiesa nascente si chiamavano tra loro “fratelli”. Questa fratellanza spirituale e Cristocentrica è più profonda della parentela naturale. Per i cristiani, tuttavia, fratelli non sono solo membri della Chiesa, ma tutti i popoli. La Parola di Dio ha assunto la natura umana e ha unito tutto in sé. Come tutti gli esseri umani sono creazione di Dio, così tutti sono stati inseriti nel piano della salvezza. L’amore del credente non ha confini e limiti. Infatti, abbraccia l’intero creato, è «l’ardere del cuore per tutta la creazione» (Isacco il Siro). L’amore per i fratelli è sempre incomparabile. Non si tratta di un sentimento astratto di simpatia verso l’umanità, che di solito ignora il prossimo. La dimensione della comunione personale e della fratellanza distingue l’amore e la fratellanza cristiana dall’umanesimo astratto.

Il Papa nell’Enciclica pronuncia una condanna molto forte della guerra e della pena di morte. Come commenta quel capitolo di «Fratelli tutti»?

A questo tema si è riferito il Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa (Creta, giugno 2016), tra gli altri, in questo modo: «La Chiesa di Cristo generalmente condanna la guerra, che considera il risultato del male e del peccato» (La Missione della Chiesa ortodossa nel mondo moderno, D, 1). Sulle labbra di ogni cristiano deve esserci lo slogan “Mai più guerra!”. E l’atteggiamento di una società nei confronti della pena di morte è un indicatore del suo orientamento culturale e della considerazione della dignità dell’uomo. Il degno sistema della cultura costituzionale europea, di cui uno dei pilastri fondamentali è l’idea dell’amore, come espressione delle sue credenze cristiane, impone di considerare che a ogni uomo deve essere data la possibilità di pentimento e di miglioramento, anche se è stato condannato per il peggior crimine. È pertanto conseguenza logica e morale che anche colui, che condanna la guerra, rifiuti la pena di morte.

Bulgaria: traslate reliquie di Clemente e Potito nella Basilica di Santa Sofia

 

Da vaticannews.va (leggi l’articolo qui)

Nella capitale bulgara si è svolta oggi la celebrazione solenne per la traslazione dei frammenti sacri dei due martiri nell’antica basilica paleocristiana che ha dato il nome alla città. Le reliquie sono state donate lo scorso febbraio da Papa Francesco al Metropolita di Sofia e Patriarca della Chiesa ortodossa di Bulgaria.

Messaggio del Patriarca Bartolomeo in occasione della Giornata di preghiera per la protezione dell’ambiente naturale 2020

 

Carissimi fratelli gerarchi e amati figli nel Signore, è una convinzione comune che, nel tempo presente, l’ambiente naturale sia minacciato come mai prima nella storia dell’umanità. L’entità di questa minaccia si manifesta nel fatto che ciò che è in gioco non è più la qualità, ma la conservazione della vita sul nostro pianeta. Per la prima volta nella storia, l’uomo è in grado di distruggere le condizioni di vita sulla terra. Le armi nucleari sono il simbolo del titanismo prometeico dell’uomo, l’espressione tangibile del “complesso di onnipotenza” dell’“uomo-dio” contemporaneo.

Nell’uso del potere che deriva dalla scienza e dalla tecnologia, ciò che si rivela oggi è l’ambivalenza della libertà dell’uomo. La scienza serve la vita; contribuisce al progresso, ad affrontare malattie e tante condizioni finora considerate “fatali”; crea nuove prospettive positive per il futuro. Tuttavia, allo stesso tempo, fornisce all’uomo mezzi estremamente potenti, il cui uso improprio può essere trasformato in distruttivo. Stiamo vivendo il dispiegarsi della distruzione dell’ambiente naturale, della biodiversità, della flora e della fauna, dell’inquinamento delle risorse acquatiche e dell’atmosfera, il progressivo collasso dell’equilibrio climatico, nonché altri superamenti di limiti e misure in molte dimensioni della vita. Il santo e grande concilio della Chiesa ortodossa (Creta, 2016) ha giustamente e splendidamente decretato che «la conoscenza scientifica non mobilita la volontà morale dell’uomo, che conosce i pericoli ma continua ad agire come se non lo sapesse» (Enciclica, 11).

È evidente che la tutela del bene comune, dell’integrità dell’ambiente naturale, è responsabilità comune di tutti gli abitanti della terra. L’imperativo categorico contemporaneo per l’umanità è di vivere senza distruggere l’ambiente. Tuttavia, mentre a livello personale e a livello di molte comunità, gruppi, movimenti e organizzazioni, c’è una dimostrazione di grande sensibilità e responsabilità ecologica, le nazioni e gli agenti economici non sono in grado — in nome delle ambizioni geopolitiche e dell’“autonomia dell’economia” — di adottare le decisioni corrette per la protezione del creato e coltivano invece l’illusione che la pretesa “distruzione ecologica globale” sia una fabbricazione ideologica dei movimenti ecologici e che l’ambiente naturale abbia il potere di rinnovarsi. Tuttavia la domanda cruciale rimane: per quanto tempo la natura sopporterà le discussioni e le consultazioni infruttuose, nonché ogni ulteriore ritardo nell’assumere azioni decisive per la sua protezione?

Il fatto che, durante il periodo della pandemia del nuovo coronavirus-covid-19, con le restrizioni obbligatorie alla circolazione, la chiusura delle fabbriche e la diminuzione dell’attività e della produzione industriale, abbiamo osservato una riduzione dell’inquinamento e del suo peso sull’atmosfera, ha dimostrato la natura antropogenica della crisi ecologica contemporanea. Ancora una volta è parso evidente che l’industria, i mezzi di trasporto contemporanei, l’automobile e l’aereo, la priorità non negoziabile degli indicatori economici e così via, hanno un impatto negativo sull’equilibrio ambientale e che un cambiamento di direzione verso un’economia ecologica costituisce una ferma necessità. Non esiste un vero progresso fondato sulla distruzione dell’ambiente naturale. È inconcepibile che si adottino decisioni economiche senza tener conto anche delle loro conseguenze ecologiche. Lo sviluppo economico non può rimanere un incubo per l’ecologia. Siamo certi che esista una via alternativa di struttura e sviluppo economico oltre all’economismo e all’orientamento dell’attività economica verso la massimizzazione del profitto.

Il futuro dell’umanità non è l’homo œconomicus. Il patriarcato ecumenico, che negli ultimi decenni è stato pioniere nel campo della protezione del creato, continuerà le sue iniziative ecologiche, l’organizzazione di conferenze ecologiche, la mobilitazione dei suoi fedeli e soprattutto dei giovani, la promozione della protezione dell’ambiente come soggetto fondamentale per il dialogo interreligioso e le iniziative comuni delle religioni, i contatti con i leader politici e le istituzioni, la cooperazione con le organizzazioni ambientaliste e i movimenti ecologici. È evidente che la collaborazione per la tutela dell’ambiente crea ulteriori vie di comunicazione e possibilità di nuove azioni comuni.

Ripetiamo che le attività ambientali del patriarcato ecumenico sono un’estensione della sua autocoscienza ecclesiologica e non costituiscono una semplice reazione circostanziale a un nuovo fenomeno. La vita stessa della Chiesa è un’ecologia applicata. I sacramenti della Chiesa, tutta la sua vita di culto, il suo ascetismo e la vita comunitaria, la vita quotidiana dei suoi fedeli, esprimono e generano il più profondo rispetto per il creato. La sensibilità ecologica dell’ortodossia non è stata creata ma è emersa dalla crisi ambientale contemporanea. La lotta per la protezione del creato è una dimensione centrale della nostra fede. Il rispetto per l’ambiente è un atto di dossologia del nome di Dio, mentre la distruzione del creato è un’offesa contro il Creatore, del tutto inconciliabile con i principi fondamentali della teologia cristiana.

Fratelli onorevoli e figli amatissimi, i valori favorevoli all’ecologia della tradizione ortodossa, preziosa eredità dei Padri, costituiscono un argine contro la cultura, il cui fondamento assiologico è il dominio dell’uomo sulla natura. La fede in Cristo ispira e rafforza l’impegno umano anche dinanzi alle immense sfide. Dalla prospettiva della fede, siamo in grado di scoprire e valutare non solo le dimensioni problematiche ma anche le possibilità e le prospettive positive della civiltà contemporanea. Chiediamo ai giovani uomini e donne ortodossi di comprendere l’importanza di vivere come cristiani fedeli e persone contemporanee. La fede nel destino eterno dell’uomo rafforza la nostra testimonianza nel mondo.

In questo spirito, dal Fanar, auguriamo a tutti voi un nuovo anno ecclesiastico propizio e benedetto, fecondo di azioni sull’esempio di Cristo, a beneficio di tutta la creazione e a gloria dell’onnisciente Creatore di tutte le cose. E noi invochiamo su di voi, attraverso le intercessioni della Santissima Theotokos, della Pammakaristos, la grazia e la misericordia del Dio delle meraviglie.

(da L’Osservatore Romano, 29 agosto 2020)