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Il patriarca Bartolomeo commenta l’enciclica «Fratelli Tutti»

 

L’intervista di Andrea Tornielli su «L’Osservatore Romano», 20 ottobre 2020, pp. 1/3

 

Santità, qual è stata la sua reazione alla lettura dell’enciclica «Fratelli tutti» di Papa Francesco?

Prima ancora di conoscere l’Enciclica Fratelli Tutti del nostro fratello Papa Francesco, abbiamo avuto la certezza che si sarebbe trattato di un altro esempio del suo incrollabile interesse per l’uomo, “l’amato di Dio”, attraverso la manifestazione della solidarietà verso tutti “gli affaticati e gravati” e i bisognosi, e che avrebbe contenuto proposte concrete per affrontare le grandi sfide del momento, ispirate dalla fonte inesauribile della tradizione cristiana, e che emergono dal suo cuore pieno d’amore. Le nostre aspettative sono state pienamente soddisfatte dopo aver completato l’analisi di questa interessantissima Enciclica, la quale non costituisce semplicemente un compendio o un sommario delle precedenti Encicliche o di altri testi di Papa Francesco, ma il coronamento e la felice conclusione di tutta la dottrina sociale. Siamo completamente d’accordo con l’invito–sfida di Sua Santità ad abbandonare l’indifferenza o anche il cinismo che governa la nostra vita ecologica, politica, economica e sociale in genere, come di unità centrate su sé stesse o disinteressate, e a sognare il nostro mondo come una famiglia umana unita, nella quale siamo tutti fratelli senza eccezioni. Con questo spirito esprimiamo l’auspicio e la speranza che l’Enciclica Fratelli tutti si riveli fonte di ispirazione e di dialogo fecondo attraverso l’assunzione di iniziative determinanti e azioni trasversali su un piano inter-cristiano, interreligioso e pan-umano.

Nel primo capitolo dell’Enciclica si parla delle “ombre ” che persistono nel mondo. Quali sono quelle che la preoccupano di più? E quale speranza ricaviamo dallo sguardo sul mondo che ci deriva dal Vangelo?

Con il suo acuto senso umanistico, sociale e spirituale, Papa Francesco individua e nomina le “ombre” nel mondo moderno. Parliamo di “peccati moderni”, anche se ci piace sottolineare che il peccato originale non è avvenuto nei nostri tempi e nella nostra epoca. Non idealizziamo affatto il passato. Giustamente, tuttavia, siamo turbati dal fatto che i moderni sviluppi tecnici e scientifici hanno rafforzato l’“hybris” dell’uomo. Le conquiste della scienza non rispondono alle nostre fondamentali ricerche esistenziali, né le hanno eliminate. Constatiamo anche che la conoscenza scientifica non penetra nelle profondità dell’anima umana. L’uomo lo sa, ma si comporta come se non lo sapesse.

Il Papa parla anche del persistente divario tra i pochi che possiedono molto e tanti che possiedono poco o nulla…

Lo sviluppo economico non ha ridotto il divario tra ricchi e poveri. Piuttosto, ha stabilito la priorità del profitto, a scapito della protezione dei deboli, e contribuisce all’esacerbazione dei problemi ambientali. E la politica è diventata serva dell’economia. I diritti umani e il diritto internazionale vengono elaborati e servono scopi estranei alla giustizia, alla libertà e alla pace. Il problema dei rifugiati, il terrorismo, la violenza di Stato, l’umiliazione della dignità umana, le moderne forme di schiavitù e l’epidemia di covid-19 stanno ora mettendo la politica davanti a nuove responsabilità e cancellano la sua logica pragmatistica.

Qual è, di fronte a questa situazione, la proposta del cristianesimo?

La proposta di vita della Chiesa è la svolta verso il “una cosa sola è necessaria”, e questa è l’amore, l’apertura all’altro e la cultura della solidarietà delle persone. Davanti al moderno arrogante “uomo-dio” predi – chiamo il “Dio-Uomo”. Di fronte all’economicismo, diamo posto all’economia ecologica e alla attività economica che si basa sulla giustizia sociale. Alla politica del “diritto del più forte”, opponiamo il principio del rispetto degli inalienabili diritti dei cittadini e del diritto internazionale. Di fronte alla crisi ecologica, siamo chiamati al rispetto del creato, alla semplicità e alla consapevolezza della nostra responsabilità di consegnare alla prossima generazione un ambiente naturale integro. Il nostro sforzo per affrontare questi problemi è indispensabile, ma sappiamo che colui che opera attraverso di noi è il Dio amico degli uomini.

Perché l’icona del Buon Samaritano è attuale oggi?

Cristo collega in particolare il “primo e grande comandamento” dell’amore verso Dio con il “secondo simile al primo” comandamento dell’amore per il prossimo (Mt 22, 36–40). E aggiunge: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». E Giovanni il teologo è molto chiaro: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio» (Gv 4, 8). La parabola del Buon Samaritano è vicina alla parabola del Giudizio (Mt 25, 31–46), è (Lc 10, 25–37) il testo biblico, che ci rivela tutta la verità del comandamento dell’amore. In questa parabola, il Sacerdote e il Levita rappresentano la religione, che è chiusa in sé stessa, si interessa solo di mantenere la “legge” inalterata, ignorando e trascurando in modo farisaico le «prescrizioni più gravi della legge» (Mt 23, 23), l’amore e il sostegno al prossimo. Il Buon Samaritano si rivela essere lo straniero filantropo vicino a colui che è stato percosso dai banditi e ferito. Alla domanda iniziale del dottore della legge «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10, 29), Cristo risponde con una domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» (Lc 10, 36). Qui all’uomo non è permesso fare domande, ma gli viene chiesto e viene chiamato ad agire. È sempre necessario far emergere il prossimo, il fratello, davanti e nei confronti del lontano, dello straniero e del nemico. È da notare che nella parabola del Buon Samaritano, in accordo con la domanda del dottore della legge che mette alla prova Cristo «Che devo fare per ereditare la vita eterna» (Luca 10, 25), in risposta ad essa, il reale amore per il prossimo ha un chiaro riferimento soteriologico. Questo è anche il messaggio della pericope del Giudizio.

Su quali basi possiamo considerarci tutti fratelli e perché è importante scoprirsi tali per il bene dell’umanità?

I cristiani della Chiesa nascente si chiamavano tra loro “fratelli”. Questa fratellanza spirituale e Cristocentrica è più profonda della parentela naturale. Per i cristiani, tuttavia, fratelli non sono solo membri della Chiesa, ma tutti i popoli. La Parola di Dio ha assunto la natura umana e ha unito tutto in sé. Come tutti gli esseri umani sono creazione di Dio, così tutti sono stati inseriti nel piano della salvezza. L’amore del credente non ha confini e limiti. Infatti, abbraccia l’intero creato, è «l’ardere del cuore per tutta la creazione» (Isacco il Siro). L’amore per i fratelli è sempre incomparabile. Non si tratta di un sentimento astratto di simpatia verso l’umanità, che di solito ignora il prossimo. La dimensione della comunione personale e della fratellanza distingue l’amore e la fratellanza cristiana dall’umanesimo astratto.

Il Papa nell’Enciclica pronuncia una condanna molto forte della guerra e della pena di morte. Come commenta quel capitolo di «Fratelli tutti»?

A questo tema si è riferito il Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa (Creta, giugno 2016), tra gli altri, in questo modo: «La Chiesa di Cristo generalmente condanna la guerra, che considera il risultato del male e del peccato» (La Missione della Chiesa ortodossa nel mondo moderno, D, 1). Sulle labbra di ogni cristiano deve esserci lo slogan “Mai più guerra!”. E l’atteggiamento di una società nei confronti della pena di morte è un indicatore del suo orientamento culturale e della considerazione della dignità dell’uomo. Il degno sistema della cultura costituzionale europea, di cui uno dei pilastri fondamentali è l’idea dell’amore, come espressione delle sue credenze cristiane, impone di considerare che a ogni uomo deve essere data la possibilità di pentimento e di miglioramento, anche se è stato condannato per il peggior crimine. È pertanto conseguenza logica e morale che anche colui, che condanna la guerra, rifiuti la pena di morte.

«Nessuno si salva da solo. Pace e fraternità». Incontro Internazionale promosso dalla Comunità di Sant'Egidio nello "Spirito di Assisi"

Omelia di Papa Francesco durante la preghiera ecumenica per la pace nella basilica di Santa Maria in Aracoeli

È un dono pregare insieme. Ringrazio e saluto con affetto tutti voi, in particolare Sua Santità il Patriarca Ecumenico, il mio fratello Bartolomeo, il Reverendissimo Arcivescovo di Canterbury Justin e il caro Vescovo Heinrich, Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania. Purtroppo, il Reverendissimo Arcivescovo di Canterbury Justin non è potuto venire a causa della pandemia.

Il brano della Passione del Signore che abbiamo ascoltato si situa appena prima della morte di Gesù e parla della tentazione che si abbatte su di Lui, stremato sulla croce. Mentre vive il momento più alto del dolore e dell’amore, molti, senza pietà, scagliano contro di Lui un ritornello: «Salva te stesso!» (Mc 15, 30). È una tentazione cruciale, che insidia tutti, anche noi cristiani: è la tentazione di pensare solo a salvaguardare sé stessi o il proprio gruppo, di avere in testa soltanto i propri problemi e i propri interessi, mentre tutto il resto non conta. È un istinto molto umano, ma cattivo, ed è l’ultima sfida al Dio crocifisso.

Salva te stesso. Lo dicono per primi «quelli che passavano di là» (v. 29). Era gente comune, che aveva sentito Gesù parlare e operare prodigi. Ora gli dicono: «Salva te stesso, scendendo dalla croce». Non avevano compassione, ma voglia di miracoli, di vederlo scendere dalla croce. Forse anche noi a volte preferiremmo un dio spettacolare anziché compassionevole, un dio potente agli occhi del mondo, che s’impone con la forza e sbaraglia chi ci vuole male. Ma questo non è Dio, è il nostro io. Quante volte vogliamo un dio a nostra misura, anziché diventare noi a misura di Dio; un dio come noi, anziché diventare noi come Lui! Ma così all’adorazione di Dio preferiamo il culto dell’io. È un culto che cresce e si alimenta con l’indifferenza verso l’altro. A quei passanti, infatti, Gesù interessava solo per soddisfare le loro voglie. Ma, ridotto a uno scarto sulla croce, non interessava più. Era davanti ai loro occhi, ma lontano dal loro cuore. L’indifferenza li teneva distanti dal vero volto di Dio.

Salva te stesso. In seconda battuta si fanno avanti i capi dei sacerdoti e gli scribi. Erano quelli che avevano condannato Gesù perché rappresentava per loro un pericolo. Ma tutti siamo specialisti nel mettere in croce gli altri pur di salvare noi stessi. Gesù, invece, si lascia inchiodare per insegnarci a non scaricare il male sugli altri. Quei capi religiosi lo accusano proprio a motivo degli altri: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso!» (v. 31). Conoscevano Gesù, ricordavano le guarigioni e le liberazioni che aveva compiuto e fanno un collegamento malizioso: insinuano che salvare, soccorrere gli altri non porta alcun bene; Lui, che si era tanto prodigato per gli altri, sta perdendo sé stesso! L’accusa è beffarda e si riveste di termini religiosi, usando due volte il verbo salvare. Ma il “vangelo” del salva te stesso non è il Vangelo della salvezza. È il vangelo apocrifo più falso, che mette le croci addosso agli altri. Il Vangelo vero, invece, si carica delle croci degli altri.

Salva te stesso. Infine, anche quelli crocifissi con Gesù si uniscono al clima di sfida contro di Lui. Com’è facile criticare, parlare contro, vedere il male negli altri e non in sé stessi, fino a scaricare le colpe sui più deboli ed emarginati! Ma perché quei crocifissi se la prendono con Gesù? Perché non li toglie dalla croce. Gli dicono: «Salva te stesso e noi!» (Lc 23, 39). Cercano Gesù solo per risolvere i loro problemi. Ma Dio non viene tanto a liberarci dai problemi, che sempre si ripresentano, ma per salvarci dal vero problema, che è la mancanza di amore. È questa la causa profonda dei nostri mali personali, sociali, internazionali, ambientali. Pensare solo a sé è il padre di tutti i mali. Ma uno dei malfattori osserva Gesù e vede in Lui l’amore mite. E ottiene il paradiso facendo una sola cosa: spostando l’attenzione da sé a Gesù, da sé a chi gli stava a fianco (cfr. v. 42).

Cari fratelli e sorelle, sul Calvario è avvenuto il grande duello tra Dio venuto a salvarci e l’uomo che vuole salvare sé stesso; tra la fede in Dio e il culto dell’io; tra l’uomo che accusa e Dio che scusa. Ed è arrivata la vittoria di Dio, la sua misericordia è scesa sul mondo. Dalla croce è sgorgato il perdono, è rinata la fraternità: «la Croce ci rende fratelli» (Benedetto XVI, Parole al termine della Via Crucis, 21 marzo 2008). Le braccia di Gesù, aperte sulla croce, segnano la svolta, perché Dio non punta il dito contro qualcuno, ma abbraccia ciascuno. Perché solo l’amore spegne l’odio, solo l’amore vince fino in fondo l’ingiustizia. Solo l’amore fa posto all’altro. Solo l’amore è la via per la piena comunione tra di noi.

Guardiamo al Dio crocifisso, e chiediamo al Dio crocifisso la grazia di essere più uniti, più fraterni. E quando siamo tentati di seguire le logiche del mondo, ricordiamo le parole di Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 35). Quella che agli occhi dell’uomo è una perdita è per noi la salvezza. Impariamo dal Signore, che ci ha salvati svuotando sé stesso (cfr. Fil 2, 7), facendosi altro: da Dio uomo, da spirito carne, da re servo. Invita anche noi a “farci altri”, ad andare verso gli altri. Più saremo attaccati al Signore Gesù, più saremo aperti e “universali”, perché ci sentiremo responsabili per gli altri. E l’altro sarà la via per salvare sé stessi: ogni altro, ogni essere umano, qualunque sia la sua storia e il suo credo. A cominciare dai poveri, dai più simili a Gesù Cristo. Il grande arcivescovo di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo scrisse che «se non ci fossero i poveri, in larga parte sarebbe demolita la nostra salvezza» (Sulla II Lettera ai Corinzi, XVII, 2). Il Signore ci aiuti a camminare insieme sulla via della fraternità, per essere testimoni credibili del Dio vero vivo.

«Quanta est nobis via?». Un messaggio di papa Francesco al cardinal Koch nel 25° anniversario della Ut unum sint.

 

di Alex Talarico.

Comparso già in «Veritas in caritate», 13/4-5 (2020), p. 36.

Il 25 maggio 1995 veniva pubblicata la Lettera Enciclica Ut unum sint da san Giovanni Paolo II, con la quale il pontefice, con lo sguardo proteso al Giubileo del 2000, rinsaldava l’impegno dei cattolici per un dialogo ecumenico e si inseriva nel solco dei suoi predecessori che, a partire da Pio XI, in forme diverse anche a seconda del contesto storico, continuavano a porsi il problema delle divisioni all’interno della Chiesa Una.

Papa Francesco lo scorso 24 maggio 2020 ha inviato una Lettera al cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, in occasione del 25° anniversario della pubblicazione della Enciclica che era stata pensata affinché tutti i cristiani siano impegnati «in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica» e affinché – così come Bartolomeo aveva sottolineato nella riflessione che poi San Giovanni Paolo II fece sua nelle meditazioni della Via Crucis del Venerdì Santo del 1994 – professino «insieme la stessa verità sulla Croce».

Francesco, che sin dall’inizio del suo pontificato non nasconde come il cammino dell’unità dei cristiani sia una delle sue priorità, coglie l’occasione dell’anniversario della Enciclica Ut unum sint, che recepisce il decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio e apporta innovative considerazioni su un ripensamento di un esercizio del primato che non prescinda dalla tradizione ma che riesca ad andare oltre tutto ciò che è frutto di prerogative legate alla storia, per rendere «grazie al Signore per il cammino che ci ha concesso di compiere come cristiani nella ricerca della piena comunione».

Inoltre, con la lettera indirizzata al cardinale Koch, il papa intende rinnovare la sua «gratitudine a quanti hanno operato e operano» all’interno del Pontificio Consiglio, creato il 5 giugno 1960 da Giovanni XXIII, e trasformato, inizialmente in organismo permanente della Santa Sede da Paolo VI nel 1966 e, infine, in Pontificio Consiglio nel 1988 proprio da san Giovanni Paolo II.

Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, che era stato pensato da Giovanni XXIII come una delle Commissione preparatorie del concilio Vaticano II con l’incarico di invitare osservatori di altre confessioni al concilio che costituiva, sia dai primi momenti della sua celebrazione, un modo del tutto nuovo nel ripensamento della partecipazione della Chiesa cattolica al movimento ecumenico, oggi promuove iniziative, incontri ed eventi che possano favorire il cammino verso l’unità e lo sviluppo di legami con le altre Chiese e realtà ecclesiali.

La decisione di papa Francesco di scrivere al cardinale Koch, proprio in occasione dell’anniversario della Enciclica, vuol salutare due eventi che vanno ad inserirsi in quello che continua ad essere l’impegno di voler promuovere, all’interno della Chiesa cattolica, un autentico spirito ecumenico secondo il Decreto conciliare sull’ecumenismo: «un Vademecum ecumenico per i Vescovi, che sarà pubblicato nel prossimo autunno, come incoraggiamento e guida all’esercizio delle loro responsabilità ecumeniche… [e] il lancio della rivista Acta OEcumenica, che, rinnovando il Servizio di Informazione del Dicastero, si propone come sussidio per quanti lavorano al servizio dell’unità».

Il papa, che condivide «la sana impazienza di quanti a volte pensano che potremmo e dovremmo impegnarci di più», tuttavia, invita a non dimenticare i «molti passi [che] sono stati fatti in questi decenni per guarire ferite secolari e millenarie». Molto in questi anni, infatti, è stato fatto, soprattutto in occasione della commemorazione comune della Riforma del XVI secolo, per una guarigione delle memorie che andasse oltre la lettura parziale degli avvenimenti storici che, per troppo tempo, erano stati letti e raccontati in maniera confessionale.

Grazie a tanti cristiani che hanno voluto farsi carico della «accorata preghiera… “Che siano una cosa sola!” (cfr Gv 17, 21)», e che costituiscono i nostri «compagni di viaggio» nella prospettiva che «l’unità si fa camminando», molti altri sono i passi compiuti dalle Chiese e comunità cristiane: «il dialogo teologico e quello della carità, come pure varie forme di collaborazione nel dialogo della vita, sul piano pastorale e culturale».

«Quanta est nobis via?». La domanda di Ut unum sint rimane ancora oggi forte: «Quanta strada ci resta da fare?». Francesco ricorda che l’unità «non è principalmente il risultato della nostra azione, ma è dono dello Spirito santo» e verrà «come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino». Riprendendo l’espressione utilizzata dal cardinale Koch in un articolo pubblicato su «L’Osservatore Romano» del 9 luglio 2016, Quando l’aereo è in volo sembra lento. Cinque indicazioni per il cammino ecumenico, il papa ricorda come il cammino, e quindi la dimensione sinodale, sia costitutivo della vita della Chiesa e dalla forte valenza ecumenica: «Come i discepoli di Emmaus, possiamo sentire la presenza di Cristo risorto che cammina accanto a noi e ci spiega le Scritture e riconoscerlo nella frazione del pane, in attesa di condividere insieme la Mensa eucaristica».

Alla luce del messaggio del papa al cardinale Koch continuiamo a camminare, interrogandoci sulla strada che ci resta da fare andando ad attingere alle fresche correnti dei documenti del concilio Vaticano II e del magistero dei pontefici, che ancora oggi, richiedono una sempre migliore recezione e comprensione, in quanto tanto ancora hanno da dire, così come tanto ha da darci la Ut unum sint, un testo che richiede approfondimento e studio affinché si possa realizzare «quella unità nella legittima diversità dei carismi».

Messaggio del Patriarca Bartolomeo a Papa Francesco. Fanar, 29 giugno 2020

Da Veritas in caritate. Informazioni dall’Ecumenismo in Italia 13/6-7 (2020), pp. 42-43.

A Sua Santità Francesco, Papa dell’antica Sede di Roma: saluti nel Signore!
Nel celebrare con Lei la santissima memoria di san Pietro, Principe degli Apostoli, e di san Paolo, Dottore delle Genti e “Apostolo della libertà”, che con gioia hanno proclamato il Vangelo dell’universale economia salvifica divina e hanno donato la vita come martiri a Roma, rivolgiamo a Vostra Santità i nostri più cordiali auguri e La salutiamo con l’abbraccio santo.
L’attuale pandemia del nuovo coronavirus covid-19 ha reso impossibile la nomina e la presenza di una Delegazione ufficiale del Patriarcato ecumenico presso la Vostra Sede per la Festa patronale della Chiesa di Roma, come consuetudine negli ultimi decenni. Partecipiamo da lontano a questa gioia festosa e veneriamo qui con devozione le sacre reliquie di Pietro, fondatore della Vostra Chiesa e fratello di Andrea, nostro Patrono e primo chiamato tra gli Apostoli, mentre attingiamo forza e benedizione dalle reliquie di cui Ella ha fatto generosamente dono alla Chiesa di Costantinopoli.
Preghiamo e ci adoperiamo incessantemente, Santissimo Fratello, per il progresso del dialogo teologico bilaterale
tra le nostre Chiese e per il cammino verso l’unità. Tale processo è arricchito dalle iniziative che condividiamo e dalle nostre dichiarazioni congiunte dinanzi alle grandi sfide contemporanee e ai problemi globali. Abbiamo un approccio comune a tali questioni, che poggia “sulla roccia” della fede e sulle virtù cristiane fondamentali dell’amore e della giustizia. La creazione dell’uomo “a immagine” di Dio e il suo destino eterno in Cristo gli conferiscono un valore insuperabile.
Per tutto il periodo della pandemia siamo rimasti colpiti dalla sofferenza di tanti esseri umani, come anche dallo spirito di sacrificio e dall’eroismo di medici e infermieri. Sentiamo il grido dei malati e dei loro cari, e avvertiamo l’angoscia dei disoccupati e di quanti sono in difficoltà a causa delle conseguenze finanziarie e sociali della presente crisi. Dinanzi a questa dolorosa situazione, la Chiesa è chiamata a dare la sua testimonianza con le parole e con i fatti.
I testi del Nuovo Testamento sono pieni di racconti di guarigione di malati, una guarigione che si riferisce alla pienezza esistenziale e alla salvezza umana. Cristo è il “medico delle anime e dei corpi” e al tempo stesso Colui che “ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (cfr. Mt 8, 17). Nel linguaggio teologico il peccato è descritto come malattia e si fa largo uso della terminologia medica per rappresentare l’incorporamento e il rinnovamento dell’uomo nella Chiesa, che è l’infermeria e l’ospedale delle anime e dei corpi. I Canoni della Chiesa esistono e servono «per la guarigione delle anime e la cura delle passioni» (Canone 2, Concilio in Trullo). Per noi cristiani la terapia e la guarigione sono un’anticipazione della vittoria definitiva della vita sulla corruzione, nonché della trascendenza ultima e dell’abolizione della morte. Non è un caso che la Chiesa consideri il contributo del medico un compito sacro, sottolineando il rapporto di fiducia tra medico e paziente e respingendo in modo assoluto la percezione del malato come entità impersonale, come “oggetto” e “caso”.
È con questo spirito che la Chiesa approccia anche i problemi economici e sociali, evidenziando gli aspetti negativi dell’attuale modello dominante di attività finanziaria e di sviluppo, che ha al centro la “massimizzazione dei profitti”. Se tale principio prevarrà unilateralmente anche durante la fase in cui si affrontano le conseguenze economiche della pandemia, allora l’umanità verrà condotta in un’impasse senza precedenti. Il futuro non può appartenere all’economismo e alla “produzione di denaro attraverso il denaro”, senza riferimento all’economia reale. Esso appartiene a una economia sostenibile, basata sui principi della giustizia sociale e della solidarietà. La soluzione non è “avere ” o “avere di più”, bensì “essere”, che implica sempre “essere insieme”. La Chiesa predica la priorità della “relazione” sulla “acquisizione”.
Con queste riflessioni e con sinceri sentimenti fraterni, auspichiamo un rapido superamento dei problemi che la pandemia ha creato persino alla vita della Chiesa, nonché gioia nel lodato giorno della Vostra Festa patronale, mentre preghiamo che il Datore di ogni bene conceda a Lei, amato Fratello, per intercessione dei santi, gloriosi e ovunque acclamati Apostoli Pietro e Paolo, robusta salute, molti anni e ogni benedizione dall’Alto, a beneficio della pienezza della Chiesa, della testimonianza cristiana nel mondo e dell’intera umanità.
Ci confermiamo con particolare stima e amore profondo nel Signore.
Di vostra Santità affezionato fratello in Cristo,
Bartolomeo di Costantinopoli