La mistagogia liturgica nella Gerarchia ecclesiastica dello Pseudo-DionigiI l’Areopagita e la tradizione alessandrina

Il commento dello Pseudo-Dionigi sulla liturgia è contenuto nella De ecclesiastica hierarchia[1]. Questo lavoro si compone di sette capitoli ed è stato scritto probabilmente alla fine del V secolo; egli disegna una visione gerarchica della realtà, specificamente neoplatonica, in cui la realtà e la conoscenza discendono dal principio sommo della creazione, Dio, tramite le intelligenze angeliche, sino ai gradi infimi della materia. Tale gerarchia si riflette nell’ordinamento piramidale della Chiesa e nella sua liturgia.

Ciascun capitolo, dal II al VII, appare diviso in due parti: mentre la prima descrive dettagliatamente la funzione liturgica relativa ad un determinato sacramento o le caratteristiche prerogative dei singoli ordini gerarchici, analoghe a quelle degli ordini angelici, la seconda, intitolata Theorìa, illustra il recondito senso spirituale nascosto nella cerimonia liturgica appena descritta.

Tutti i riti liturgici e gli stessi sacramenti sono caratterizzati da una moltitudine di immagini e di simboli sensibili che velano le verità più alte. Partendo da questa simbologia, chi vuole progredire deve elevarsi alle verità nascoste adottando il metodo “anagogico”, basato sull’interpretazione allegorica o spirituale dei simboli stessi:

“I sacri simboli sensibili sono immagini delle realtà intelligibili e la guida e la strada <che conducono> ad esse, mentre le realtà intellegibili sono il principio e la base scientifica dei simboli sensibili di cui fa uso la gerarchia”[2].

La realtà, quindi, è spirituale e i simboli materiali sono solo i mezzi con cui viene comunicata. Quindi il mondo materiale ha valore solo nella misura in cui è simbolico, cioè solo nella misura in cui è in grado di comunicare per rivelare le realtà spirituali. Il simbolo diventa così un mezzo di ascesa spirituale:

“… la nostra gerarchia invece, conformemente alle nostre capacità, la vediamo moltiplicata nella varietà dei simboli sensibili, dai quali veniamo elevati per via gerarchica alla deificazione simile all’uno secondo la misura adatta a noi”[3].

Un chiaro esempio di metodo “anagogico” in chiave neoplatonica è rappresentato dal modo in cui viene interpretata la distribuzione della comunione: la suddivisione tra molte persone dell’unico pane e del vino contenuto nell’unico calice è il simbolo, da una parte, del frazionamento che caratterizza la processione dell’energia divina dall’unità della fonte originaria senza che quest’ultima subisca alterazioni, dall’altra, della processione dell’unico, semplice e “arcano” Logos verso la composita natura umana.

“A coloro che agiscono santamente il vescovo rivela tutto questo, mettendo in mostra i doni nascosti, dividendo in molte parti la loro unità e facendo entrare in comunione con essi coloro che li ricevono grazie alla perfetta unione dei doni distribuiti con le persone in cui essi entrano. Egli rappresenta così in modo sensibile, come in immagini, la nostra vita <spirituale>, e ci fa vedere Gesù Cristo mentre riceve, per amor nostro, una forma da noi, diventando completamente, da quel Dio nascosto che era, un uomo come noi pur senza confondersi <con noi>, mentre procede dall’unità a lui connaturata verso i nostri particolarismi senza alterarsi e mentre chiama il genere umano alla partecipazione di se stesso e dei propri beni grazie a questo suo benefico amore; se veramente ci uniremo alla sua divinissima vita cercando secondo le nostre possibilità di renderci simile ad essa, anche in tal modo diverremo veramente partecipi di Dio e dei beni divini.”[4].

Dunque, per lo Pseudo-Dionigi, la liturgia è un’allegoria del progresso dell’anima dalla divisione del peccato alla comunione divina, attraverso un processo di purificazione, illuminazione, perfezione, ripreso nei riti.

La liturgia non è qualcosa inventato da noi per fare un’esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, si dilata unendosi con il linguaggio di tutte le creature. Non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin, un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica.

L’intera liturgia è quindi percepita come un’ascesa dal materiale allo spirituale, dalla molteplicità dell’esistenza inferiore all’unità del divino. L’intera enarxis e la Liturgia della Parola sono viste come una preparazione spirituale, una purificazione, la rimozione dell’impuro (catecumeni e penitenti) e di tutti i pensieri e le passioni materiali.

Le affinità dello Pseudo-Dionigi con Origene e con la tradizione alessandrina sono evidenti. Troviamo l’attenzione tipicamente alessandrina alla divinità di Cristo, con la conseguente difficoltà nell’esprimere il ministero terreno di Cristo, la sua morte e risurrezione. L’atto salvifico essenziale consiste nella sola incarnazione, che è la fonte della nostra unione con Dio, resa possibile dalla nostra partecipazione alla liturgia. La deificazione si ottiene attraverso l’imitazione etica della perfezione del Logos incarnato. Il Gesù storico, sebbene non negato, sfuma sullo sfondo. Il risultato di questo approccio è una cristologia e una soteriologia squilibrata, nonché una visione squilibrata della liturgia, poiché si presta poca attenzione a ciò che la stessa liturgia ha da dire nei suoi testi e riti, imponendo su di essa presupposti filosofici. Facendo propria la teoria plotiniana di Dio che, per la sua infinità è al di sopra dell’essere e di ogni realtà comprensibile nelle categorie della ragione discorsiva, l’autore dice che l’atto più sacro della liturgia è la frazione:

“Dopo aver scoperto e diviso molte parti il pane <ancora> velato indiviso, e dopo aver diviso simbolicamente tra tutti l’unico calice, moltiplica e distribuisce l’unità <originaria> compiendo così un santissimo atto sacro”[5].

Lo pseudo Dionigi applica quindi alla liturgia lo stesso metodo che si usa nell’interpretazione della Sacra Scrittura e che ha ereditato da Filone e dai padri alessandrini e Cappadoci, cioè il considerare un insieme di alte verità teologiche coperte da veli (utilizza il termine tecnico παραπετασμάτων parapetasmàton usato da Proclo Licio Diadoco per indicare i “veli” che celano le verità più alte), da simboli e da immagini; tale metodo ha anche un preciso parallelo in quanto Proclo dice sulla mitologia e la religione greca che sono anch’esse velate da simboli allegorici; e studi abbastanza recenti hanno mostrato come l’adozione del metodo “anagogico” abbia un chiaro precedente in Giamblico di Calcide[6].

 

[1] Testo greco in PG 3, 369-485; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, introduzione, traduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Città Nuova, Roma 2002.

[2] Capitolo II, 3, 2; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 60.

[3] Capitolo I, 2; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 47.

[4] Capitolo III, 3, 13; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 94-95.

[5] Capitolo III, 3, 12; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 93.

[6] Cf. S. LILLA, Introduzione allo studio dello ps. Dionigi L’Areopagita, in Augustinianum 22 (1982), 559-560; P. ROREM, Iamblichus and the Anagogical Method in Pseudo-Dionysian Liturgical Theology, in Studia Patristica XVII, 1, Oxford 1982, 453-460.

diac. Antonio Calisi