Category Archives: Il Papa e l’Unità dei Cristiani

Vademecum Ecumenico. L’Intervento del Card. Kurt Koch alla Conferenza Stampa di Presentazione.

Vademecum”, etimologicamente significa “vieni con me”. Il documento che vi presentiamo oggi è stato pensato come una guida, una bussola, o come un compagno di viaggio, per il cammino ecumenico del Vescovo assieme alla sua diocesi. Vorrei brevemente presentare lo scopo, la preparazione e il contenuto di questo nuovo documento del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Scopo

Il Vademecum ecumenico è nato da una richiesta avanzata dai membri e dai consultori del Dicastero durante la plenaria del 2016. Essi espressero l’auspicio di un breve documento che potesse incoraggiare, assistere e guidare i Vescovi cattolici nel loro servizio di promozione dell’unità dei cristiani attraverso il loro ministero.

Infatti, se il Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo del 1993 è il documento di riferimento per il compito ecumenico dell’intera Chiesa cattolica, si avvertiva la mancanza di un testo destinato ai Vescovi per l’adempimento delle loro responsabilità ecumeniche.

Il Vescovo non può considerare la promozione dell’unità dei cristiani semplicemente come uno dei tanti compiti del suo ministero, un compito che potrebbe o dovrebbe essere posposto ad altre priorità, apparentemente più importanti. L’impegno ecumenico del Vescovo non è una dimensione opzionale del suo ministero, bensì un dovere e un obbligo.

Preparazione

Il processo di preparazione del Vademecum è durato circa tre anni. Una prima bozza è stata preparata dagli officiali del Pontificio Consiglio con la consulenza di esperti, e poi presentata durante la plenaria del Dicastero nel 2018. Il testo è stato in seguito inviato a numerosi Dicasteri della Curia Romana, che vorrei qui calorosamente ringraziare per il loro prezioso contributo.

Le linee guida del Vademecum si basano sul Decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II, sull’Enciclica Ut unum sint, e su due documenti del Pontificio Consiglioil Direttorio ecumenico e La dimensione ecumenica nella formazione di chi si dedica al ministero pastorale. Non si trattava, tuttavia, di ripetere questi documenti, ma piuttosto di proporre una breve sintesi, aggiornata e arricchita dai temi portati avanti nel corso degli ultimi pontificati, e sempre adottando il punto di vista del Vescovo: una guida che possa ispirare lo sviluppo dell’azione ecumenica e che sia di facile consultazione.

Il Santo Padre ha approvato il Vademecum e vi ha fatto riferimento nella sua Lettera del 24 maggio scorso in occasione del 25° anniversario dell’Enciclica Ut unum sint (1995). Ricordando che “il servizio dell’unità è un aspetto essenziale della missione del Vescovo”, Papa Francesco ha espresso l’auspicio che il Vademecum serva come “incoraggiamento e guida” all’esercizio delle responsabilità ecumeniche dei Vescovi.

Il Pontificio Consiglio si è dato premura di preparare la traduzione del Vademecum in diverse lingue. Per il momento sono pronte le versioni in inglese, italiano, francese, spagnolo, portoghese e tedesco.

La pubblicazione del Vademecum ecumenico segna non solo il 25° anniversario dell’Enciclica Ut unum sint, ma anche un altro importante anniversario per l’impegno ecumenico della Chiesa cattolica: il 60° anniversario dell’istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, avvenuta in seguito all’annuncio del Concilio Vaticano II. Per celebrare queste due ricorrenze si terrà questo pomeriggio un Atto accademico trasmesso in diretta streaming dall’Angelicum.

Contenuto

Per quanto riguarda il contenuto, il documento si articola in due parti. La prima parte, intitolata “La promozione dell’ecumenismo nella Chiesa cattolica”, espone ciò che viene richiesto alla Chiesa cattolica nell’adempimento della sua missione ecumenica. Infatti, come afferma il Vademecum “La ricerca dell’unità è innanzitutto una sfida per i cattolici” (6). In questa prima parte il Vademecum prende dunque in considerazione le strutture e le persone attive in campo ecumenico a livello diocesano e nazionale, la formazione ecumenica e l’uso dei mass media diocesani.

La seconda parte, intitolata “Le relazioni della Chiesa cattolica con gli altri cristiani”, esamina quattro modi in cui la Chiesa cattolica interagisce con altre comunità cristiane. Il primo modo è quello dell’ecumenismo spiritualeche, come dice il Concilio, è l’“anima del movimento ecumenico” (UR §8). Il Vademecum sottolinea in particolare l’importanza delle Sacre Scritture (20), dell’“ecumenismo dei santi” (22), della purificazione della memoria (24).

Il secondo modo è il dialogo della carità, che si occupa della promozione di una “cultura dell’incontro” a livello di contatti e di collaborazione quotidiani, alimentando e approfondendo la relazione che già unisce i cristiani in virtù del battesimo. Come dice San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint: “il riconoscimento della fraternità […] va ben al di là di un atto di cortesia ecumenica e costituisce una basilare affermazione ecclesiologica” (UUS 42). Il Vademecum fa alcune raccomandazioni pratiche al riguardo; per esempio assistere, per quanto possibile e opportuno, alle liturgie di ordinazione o insediamento dei responsabili di altre Chiese, invitare i responsabili di altre Chiese a celebrazioni liturgiche e ad altri eventi significativi della Chiesa cattolica.

Il terzo modo è il dialogo della verità, che si riferisce alla ricerca della verità di Dio che i cattolici intraprendono insieme ad altri cristiani attraverso il dialogo teologico. Sono qui menzionati alcuni principi del dialogo come scambio di doni (27), del dialogo teologico che “non cerca un minimo comune denominatore teologico sul quale raggiungere un compromesso, ma si basa piuttosto sull’approfondimento della verità tutta intera” (28). Il documento menziona la sfida della ricezione che deve coinvolgere l’intera Chiesa nell’esercizio del sensus fidei (30).

Il quarto modo è il dialogo della vita. Con questa espressione si designano occasioni di scambio e di collaborazione con altri cristiani in tre campi principali: la cura pastorale, la testimonianza al mondo e la cultura. Per quanta riguarda l’ecumenismo pastorale il Vademecum affronta temi come la collaborazione nel campo della missione e della catechesi (34), i matrimoni misti (35), la communicatio in sacris (36). Nel campo dell’ecumenismo pratico il Vademecum tratta della collaborazione nel servizio al mondo (38), e del dialogo interreligioso come sfida ecumenica (39). Infine il documento tratta dell’ecumenismo culturale, in particolare mediante progetti comuni in ambito accademico, scientifico e artistico (41).

Il Vademecum non solo ricorda i principi dell’impegno ecumenico del Vescovo ma, alla fine di ciascuna sezione, riporta un elenco di “raccomandazioni pratiche”, che riassumono in termini semplici e diretti i compiti e le iniziative che il Vescovo può promuovere a livello locale e regionale. Infine, un’Appendice offre una breve descrizione dei partner della Chiesa cattolica nei dialoghi teologici internazionali bilaterali e multilaterali e dei principali frutti già raccolti.

Papa Francesco spesso ribadisce che l’unità si fa camminando; se camminiamo insieme con Cristo, Lui stesso realizzerà l’unità. “L’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino” (Basilica di San Paolo fuori le Mura, 25 gennaio 2014). Possa questo Vademecum essere un aiuto sul cammino dei Vescovi e di tutta la Chiesa cattolica verso la piena comunione per la quale il Signore ha pregato. Grazie.

Il Messaggio di Papa Francesco al Patriarca Bartolomeo in occasione della Festa di S. Andrea

( da L’Osservatore Romano, 30 novembre 2020)

 

Nel quadro del tradizionale scambio di delegazioni per le rispettive feste dei santi patroni — il 29 giugno a Roma per la celebrazione dei santi Pietro e Paolo e il 30 novembre a Istanbul per la celebrazione di sant’Andrea – il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha guidato la delegazione della Santa Sede per la festa del Patriarcato ecumenico. A comporla erano il segretario del dicastero, il vescovo Brian Farrell, e il sottosegretario, monsignor Andrea Palmieri. A Istanbul, si è unito il nunzio apostolico in Turchia, l’a rcivescovo Paul F. Russell. La delegazione della Santa Sede ha preso parte alla solenne Divina liturgia presieduta dal patriarca ecumenico Bartolomeo I nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar. Il cardinale Koch ha consegnato al patriarca ecumenico un messaggio autografo del Santo Padre, di cui ha dato pubblica lettura alla conclusione della Divina liturgia. Ne pubblichiamo di seguito una traduzione dall’inglese.

A Sua Santità Bartolomeo
Arcivescovo di Costantinopoli
Patriarca Ecumenico

Nella festa dell’Apostolo Andrea, amato fratello di san Pietro e santo patrono del Patriarcato Ecumenico, esprimo con gioia a Sua Santità la mia vicinanza spirituale ancora una volta attraverso la delegazione. Mi unisco a lei nel rendere grazie a Dio per i ricchi frutti della divina provvidenza, manifesti nella vita di sant’Andrea.

Allo stesso modo prego affinché, attraverso la potente intercessione di nostro Signore, che lo chiamò per essere tra i suoi primi discepoli, benedica abbondantemente lei, i suoi fratelli nell’episcopato e i membri del Santo Sinodo, e tutto il clero, i monaci e i laici fedeli riuniti per la Divina Liturgia celebrata nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio al Fanar. Richiamare alla mente la carità, lo zelo apostolico e la perseveranza di sant’Andrea, è una fonte d’incoraggiamento in questi tempi difficili e critici. Rendere gloria a Dio rafforza anche la nostra fede e la nostra speranza in colui che accolse nella vita eterna il santo martire Andrea, la cui fede resistette nell’ora di prova.

Ricordo con grande gioia la presenza di Sua Santità all’incontro internazionale per la pace tenutosi a Roma il 20 ottobre scorso, con la partecipazione di rappresentanti di varie Chiese e di altre tradizioni religiose. Oltre alle sfide poste dall’attuale pandemia, la guerra continua ad affliggere molte aree del mondo, mentre nuovi conflitti armati emergono per rubare le vite di innumerevoli uomini e donne. Indubbiamente tutte le iniziative prese da organismi nazionali e internazionali, volte a promuovere la pace, sono utili e necessarie, tuttavia conflitto e violenza non cesseranno mai finché tutte le persone non raggiungeranno una più profonda consapevolezza di avere una responsabilità reciproca come fratelli e sorelle. Alla luce di ciò, le Chiese cristiane, insieme con altre tradizioni religiose, hanno un dovere primario di offrire un esempio di dialogo, mutuo rispetto e cooperazione pratica.

Con profonda gratitudine a Dio, ho sperimentato questa fraternità in prima persona nei vari incontri che abbiamo condiviso. A tale proposito, riconosco che il desiderio di una sempre maggiore vicinanza e comprensione tra cristiani si è manifestato nel Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli prima che la Chiesa cattolica e altre Chiese s’impegnassero nel dialogo. Ciò si può chiaramente vedere nella lettera enciclica del Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico rivolta alle Chiese in tutto il mondo esattamente cento anni fa. Infatti, le sue parole risultano ancora oggi pertinenti: «Quando le diverse Chiese sono ispirate dall’amore e lo pongono prima di qualsiasi altra cosa nel loro giudizio degli altri e nella relazione gli uni verso gli altri, saranno capaci, invece di accrescere e ampliare i dissensi esistenti, di attenuarli e ridurli il più possibile; e promuovendo un costante interesse fraterno per la condizione, la stabilita e la prosperità delle altre Chiese, con il loro forte desiderio di vedere che cosa sta accadendo in quelle Chiese, e ottenendo una più accurata conoscenza di esse, e con la loro disponibilità a dare, ogni volta che si presenterà l’occasione, una mano di aiuto e di assistenza, allora faranno e otterranno molte cose buone per la gloria e a beneficio sia di se stesse sia dell’intero corpo cristiano, e per il progresso del tema dell’unione».

Possiamo rendere grazie a Dio per il fatto che le relazioni tra la Chiesa cattolica e il Patriarcato ecumenico sono cresciute molto nell’ultimo secolo, anche se continuiamo ad anelare all’obiettivo della restaurazione della piena comunione espressa attraverso la partecipazione allo stesso altare eucaristico. Sebbene gli ostacoli rimangano, sono fiducioso che camminando insieme nell’amore reciproco e perseguendo il dialogo teologico, raggiungeremo questo obiettivo. Tale speranza è basata sulla nostra fede comune in Gesù Cristo, inviato da Dio Padre per riunire tutti gli uomini in un corpo, e pietra d’angolo della Chiesa una e santa, santo tempio di Dio, nella quale tutti noi siamo pietre viventi, ognuno secondo il proprio particolare carisma o ministero conferitogli dallo Spirito Santo.

Con questi sentimenti, rinnovo i miei migliori auspici per la festa di sant’Andrea, e scambio con Sua Santità un abbraccio di pace nel Signore.

Roma, san Giovanni in Laterano, 30 novembre 2020

Francesco

Lettera di Papa Francesco sull’Europa, al Segretario di Stato

fonte: vatican.va

Si pubblica di seguito la lettera che il Santo Padre ha indirizzato all’Em.mo Segretario di Stato in occasione del 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea (COMECE), del 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e del 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.

In concomitanza con tali ricorrenze, era in programma, nei giorni 28-30 ottobre, una visita del Card. Parolin a Bruxelles, che è stata cancellata a causa dell’aggravarsi dell’emergenza sanitaria. Si prevede che gli incontri con le Autorità dell’Unione Europea e con i membri della COMECE possano svolgersi in video-collegamento.


Eminenza Reverendissima,

nell’anno corrente, la Santa Sede e la Chiesa in Europa celebrano alcune significative ricorrenze. Cinquant’anni fa si è, infatti, concretizzata la collaborazione fra la Santa Sede e le Istituzioni europee sorte dopo la seconda guerra mondiale, con l’allacciamento delle relazioni diplomatiche con le allora Comunità Europee e con la presenza della Santa Sede come Osservatore presso il Consiglio d’Europa. Nel 1980 ha poi preso vita la Commissione degli Episcopati delle Comunità Europee (COMECE), alla quale partecipano con un proprio delegato tutte le Conferenze Episcopali degli Stati Membri dell’Unione Europea, con lo scopo di favorire «una più stretta collaborazione fra detti Episcopati, in ordine alle questioni pastorali connesse con lo sviluppo delle competenze e delle attività dell’Unione»[1]. Quest’anno si è celebrato pure il 70° anniversario della Dichiarazione Schuman, un evento di capitale importanza che ha ispirato il lungo cammino di integrazione del continente, consentendo di superare le ostilità prodotte dai due conflitti mondiali.

Alla luce di questi eventi, Ella ha in programma prossimamente significative visite alle Autorità dell’Unione Europea, all’Assemblea Plenaria della COMECE e alle Autorità del Consiglio d’Europa, in vista delle quali ritengo doveroso condividere con Lei alcune riflessioni sul futuro di questo continente, che mi è particolarmente caro, non solo per le origini familiari, ma anche per il ruolo centrale che esso ha avuto e ritengo debba avere ancora, seppure con accenti diversi, nella storia dell’umanità.

Tale ruolo diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che «l’unità è superiore al conflitto»[2] e che la solidarietà può essere «uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita»[3]. Nel nostro tempo che «sta dando segno di ritorno indietro»[4], in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia costituisce come uno spartiacque che costringe ad operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella “strada della fraternità”, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman.

Nelle cronache europee degli ultimi mesi, la pandemia ha posto in evidenza tutto questo: la tentazione di fare da sé, cercando soluzioni unilaterali ad un problema che travalica i confini degli Stati, ma anche, grazie al grande spirito di mediazione che caratterizza le Istituzioni europee, il desiderio di percorrere con convinzione la “strada della fraternità” che è pure “strada della solidarietà”, mettendo in campo creatività e nuove iniziative.

Tuttavia, i passi intrapresi hanno bisogno di consolidarsi, per evitare che le spinte centrifughe riprendano forza. Risuonano allora oggi più che mai attuali le parole che san Giovanni Paolo II ha pronunciato nell’Atto europeistico di Santiago di Compostela: Europa «ritrova te stessa, sii te stessa»[5]. In un tempo di cambiamenti repentini c’è il rischio di perdere la propria identità, specialmente quando vengono a mancare valori condivisi sui quali fondare la società.

All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico.

Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali che hanno radici profonde. Sii te stessa! Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura.

Oggi, mentre in Europa tanti si interrogano con sfiducia sul suo futuro, molti la guardano con speranza, convinti che essa abbia ancora qualcosa da offrire al mondo e all’umanità. È la stessa fiducia che ispirò Robert Schuman, consapevole che «il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche»[6]. È la stessa fiducia che possiamo avere noi, a partire da valori condivisi e radicati nella storia e nella cultura di questa terra.

Quale Europa sogniamo dunque per il futuro? In che cosa consiste il suo contributo originale? Nel mondo attuale, non si tratta di recuperare un’egemonia politica o una “centralità geografica”, né si tratta di elaborare innovative soluzioni ai problemi economici e sociali. L’originalità europea sta anzitutto nella sua concezione dell’uomo e della realtà; nella sua capacità di intraprendenza e nella sua solidarietà operosa.

Sogno allora un’Europa amica della persona e delle persone. Una terra in cui la dignità di ognuno sia rispettata, in cui la persona sia un valore in sé e non l’oggetto di un calcolo economico o un bene di commercio. Una terra che tutela la vita in ogni suo istante, da quando sorge invisibile nel grembo materno fino alla sua fine naturale, perché nessun essere umano è padrone della vita, propria o altrui. Una terra che favorisca il lavoro come mezzo privilegiato per la crescita personale e per l’edificazione del bene comune, creando opportunità di occupazione specialmente per i più giovani. Essere amici della persona significa favorirne l’istruzione e lo sviluppo culturale. Significa proteggere chi è più fragile e debole, specialmente gli anziani, i malati che necessitano cure costose e i disabili. Essere amici della persona significa tutelarne i diritti, ma anche rammentarne i doveri. Significa ricordare che ognuno è chiamato a donare il proprio contributo alla società, poiché nessuno è un universo a sé stante e non si può esigere rispetto per sé, senza rispetto per gli altri; non si può ricevere se nel contempo non si è disposti anche a dare.

Sogno un’Europa che sia una famiglia e una comunità. Un luogo che sappia valorizzare le peculiarità di ogni persona o popolo, senza dimenticare che essi sono uniti da comuni responsabilità. Essere famiglia significa vivere in unità, facendo tesoro delle differenze, a partire da quella fondamentale tra uomo e donna. In questo senso l’Europa è una vera e propria famiglia di popoli, diversi tra loro eppure legati da una storia e da un destino comune. Gli anni recenti e ancor più la pandemia hanno dimostrato che nessuno può farcela da solo e un certo modo individualistico di intendere la vita e la società porta solo a sconforto e solitudine. Ogni essere umano ambisce ad essere parte di una comunità, ovvero di una realtà più grande che lo trascende e che dona senso alla sua individualità. Un’Europa divisa, composta di realtà solitarie ed indipendenti, si troverà facilmente incapace di affrontare le sfide del futuro. Un’ “Europa comunità”, solidale e fraterna, saprà invece fare tesoro delle differenze e del contributo di ciascuno per fronteggiare insieme le questioni che l’attendono, a partire dalla pandemia, ma anche dalla sfida ecologica, che non riguarda soltanto la protezione delle risorse naturali e la qualità dell’ambiente che abitiamo. Si tratta di scegliere fra un modello di vita che scarta uomini e cose e uno inclusivo che valorizza il creato e le creature.

Sogno un’Europa solidale e generosa. Un luogo accogliente ed ospitale, in cui la carità – che è somma virtù cristiana – vinca ogni forma di indifferenza ed egoismo. La solidarietà è un’espressione fondamentale di ogni comunità ed esige che ci si prenda cura l’uno dell’altro. Certamente occorre una “solidarietà intelligente” che non si limiti solo ad assistere all’occorrenza i bisogni fondamentali.

Essere solidali significa condurre chi è più debole in un cammino di crescita personale e sociale così che un giorno possa a sua volta aiutare gli altri. È come un buon medico che non si limita a somministrare una medicina, ma accompagna il paziente fino alla piena guarigione.

Essere solidali implica farsi prossimi. Per l’Europa significa particolarmente rendersi disponibile, vicina e volenterosa nel sostenere, attraverso la cooperazione internazionale, gli altri continenti, penso specialmente all’Africa, affinché si compongano i conflitti in corso e si avvii uno sviluppo umano sostenibile.

La solidarietà si nutre poi di gratuità e genera gratitudine. E la gratitudine ci porta a guardare all’altro con amore, ma quando dimentichiamo di ringraziare per i benefici ricevuti, siamo più inclini a chiuderci in noi stessi e a vivere nella paura di tutto ciò che sta intorno a noi ed è diverso da noi.

Lo vediamo nelle tante paure che attraversano le nostre società di questi tempi, tra le quali non posso tacere la diffidenza nei confronti dei migranti. Solo un’Europa che sia “comunità solidale” può fare fronte a questa sfida in modo proficuo, mentre ogni soluzione parziale ha già dimostrato la propria inadeguatezza. È evidente, infatti, che la doverosa accoglienza dei migranti, non può limitarsi a mere operazioni di assistenza di chi arriva, spesso scappando da conflitti, carestie o disastri naturali, ma deve consentire la loro integrazione così che possano «conoscere, rispettare e anche assimilare la cultura e le tradizioni della nazione che li accoglie»[7].

Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società. Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma – si spera – anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio[8], poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana.

I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società[9]. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione ad offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano.

Signor Cardinale,

queste brevi parole nascono dalla mia premura di Pastore e dalla certezza che l’Europa abbia ancora molto da donare al mondo. Non hanno, dunque, altra pretesa che quella di essere un contributo personale alla riflessione da più parte sollecitata sul suo avvenire. Le sarò grato se vorrà condividerne i contenuti nei colloqui che Ella avrà nei prossimi giorni con le Autorità europee e con i membri della COMECE che esorto a collaborare in spirito di comunione fraterna con tutti i Vescovi del continente, riuniti nel Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE). A ciascuno, La prego di portare il mio personale saluto e il segno della mia vicinanza ai popoli che rappresentano. I Suoi incontri saranno certamente un’occasione propizia per approfondire le relazioni della Santa Sede con l’Unione Europea e con il Consiglio d’Europa, e per confermare la Chiesa nella sua missione evangelizzatrice e nel suo servizio al bene comune.

Non manchi poi sulla nostra cara Europa la protezione dei suoi santi patroni: San Benedetto, i Santi Cirillo e Metodio, Santa Brigida, Santa Caterina e Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), uomini e donne che per amore del Signore si sono adoperati senza sosta nel servizio dei più poveri e a favore dello sviluppo umano, sociale e culturale di tutti i popoli europei.

Nell’affidarmi alle Sue preghiere e a quelle di quanti avrà modo di incontrare nel corso del Suo viaggio, voglia portare a tutti la mia Benedizione.

Dal Vaticano, 22 ottobre 2020
Memoria di San Giovanni Paolo II

Francesco


[1] Statuto della COMECE, art. 1.

[2] Lett. enc. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 228.

[3] Ibid.

[4] Lett. enc. Fratelli tutti, 3 ottobre 2020, n. 11.

[5] Giovanni Paolo II, Atto europeistico a Santiago de Compostela, 9 novembre 1982, n.4.

[6] Dichiarazione Schuman, Parigi, 9 maggio 1950.

[7] Discorso ai partecipanti alla Conferenza “(Re)Thinking Europe”, 28 ottobre 2017.

[8] Cfr. Intervista al settimanale cattolico belga “Tertio”, 7 dicembre 2016.

[9] Discorso ai partecipanti alla Conferenza “(Re)Thinking Europe”, cit.

«Nessuno si salva da solo. Pace e fraternità». Incontro Internazionale promosso dalla Comunità di Sant'Egidio nello "Spirito di Assisi"

Omelia di Papa Francesco durante la preghiera ecumenica per la pace nella basilica di Santa Maria in Aracoeli

È un dono pregare insieme. Ringrazio e saluto con affetto tutti voi, in particolare Sua Santità il Patriarca Ecumenico, il mio fratello Bartolomeo, il Reverendissimo Arcivescovo di Canterbury Justin e il caro Vescovo Heinrich, Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania. Purtroppo, il Reverendissimo Arcivescovo di Canterbury Justin non è potuto venire a causa della pandemia.

Il brano della Passione del Signore che abbiamo ascoltato si situa appena prima della morte di Gesù e parla della tentazione che si abbatte su di Lui, stremato sulla croce. Mentre vive il momento più alto del dolore e dell’amore, molti, senza pietà, scagliano contro di Lui un ritornello: «Salva te stesso!» (Mc 15, 30). È una tentazione cruciale, che insidia tutti, anche noi cristiani: è la tentazione di pensare solo a salvaguardare sé stessi o il proprio gruppo, di avere in testa soltanto i propri problemi e i propri interessi, mentre tutto il resto non conta. È un istinto molto umano, ma cattivo, ed è l’ultima sfida al Dio crocifisso.

Salva te stesso. Lo dicono per primi «quelli che passavano di là» (v. 29). Era gente comune, che aveva sentito Gesù parlare e operare prodigi. Ora gli dicono: «Salva te stesso, scendendo dalla croce». Non avevano compassione, ma voglia di miracoli, di vederlo scendere dalla croce. Forse anche noi a volte preferiremmo un dio spettacolare anziché compassionevole, un dio potente agli occhi del mondo, che s’impone con la forza e sbaraglia chi ci vuole male. Ma questo non è Dio, è il nostro io. Quante volte vogliamo un dio a nostra misura, anziché diventare noi a misura di Dio; un dio come noi, anziché diventare noi come Lui! Ma così all’adorazione di Dio preferiamo il culto dell’io. È un culto che cresce e si alimenta con l’indifferenza verso l’altro. A quei passanti, infatti, Gesù interessava solo per soddisfare le loro voglie. Ma, ridotto a uno scarto sulla croce, non interessava più. Era davanti ai loro occhi, ma lontano dal loro cuore. L’indifferenza li teneva distanti dal vero volto di Dio.

Salva te stesso. In seconda battuta si fanno avanti i capi dei sacerdoti e gli scribi. Erano quelli che avevano condannato Gesù perché rappresentava per loro un pericolo. Ma tutti siamo specialisti nel mettere in croce gli altri pur di salvare noi stessi. Gesù, invece, si lascia inchiodare per insegnarci a non scaricare il male sugli altri. Quei capi religiosi lo accusano proprio a motivo degli altri: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso!» (v. 31). Conoscevano Gesù, ricordavano le guarigioni e le liberazioni che aveva compiuto e fanno un collegamento malizioso: insinuano che salvare, soccorrere gli altri non porta alcun bene; Lui, che si era tanto prodigato per gli altri, sta perdendo sé stesso! L’accusa è beffarda e si riveste di termini religiosi, usando due volte il verbo salvare. Ma il “vangelo” del salva te stesso non è il Vangelo della salvezza. È il vangelo apocrifo più falso, che mette le croci addosso agli altri. Il Vangelo vero, invece, si carica delle croci degli altri.

Salva te stesso. Infine, anche quelli crocifissi con Gesù si uniscono al clima di sfida contro di Lui. Com’è facile criticare, parlare contro, vedere il male negli altri e non in sé stessi, fino a scaricare le colpe sui più deboli ed emarginati! Ma perché quei crocifissi se la prendono con Gesù? Perché non li toglie dalla croce. Gli dicono: «Salva te stesso e noi!» (Lc 23, 39). Cercano Gesù solo per risolvere i loro problemi. Ma Dio non viene tanto a liberarci dai problemi, che sempre si ripresentano, ma per salvarci dal vero problema, che è la mancanza di amore. È questa la causa profonda dei nostri mali personali, sociali, internazionali, ambientali. Pensare solo a sé è il padre di tutti i mali. Ma uno dei malfattori osserva Gesù e vede in Lui l’amore mite. E ottiene il paradiso facendo una sola cosa: spostando l’attenzione da sé a Gesù, da sé a chi gli stava a fianco (cfr. v. 42).

Cari fratelli e sorelle, sul Calvario è avvenuto il grande duello tra Dio venuto a salvarci e l’uomo che vuole salvare sé stesso; tra la fede in Dio e il culto dell’io; tra l’uomo che accusa e Dio che scusa. Ed è arrivata la vittoria di Dio, la sua misericordia è scesa sul mondo. Dalla croce è sgorgato il perdono, è rinata la fraternità: «la Croce ci rende fratelli» (Benedetto XVI, Parole al termine della Via Crucis, 21 marzo 2008). Le braccia di Gesù, aperte sulla croce, segnano la svolta, perché Dio non punta il dito contro qualcuno, ma abbraccia ciascuno. Perché solo l’amore spegne l’odio, solo l’amore vince fino in fondo l’ingiustizia. Solo l’amore fa posto all’altro. Solo l’amore è la via per la piena comunione tra di noi.

Guardiamo al Dio crocifisso, e chiediamo al Dio crocifisso la grazia di essere più uniti, più fraterni. E quando siamo tentati di seguire le logiche del mondo, ricordiamo le parole di Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 35). Quella che agli occhi dell’uomo è una perdita è per noi la salvezza. Impariamo dal Signore, che ci ha salvati svuotando sé stesso (cfr. Fil 2, 7), facendosi altro: da Dio uomo, da spirito carne, da re servo. Invita anche noi a “farci altri”, ad andare verso gli altri. Più saremo attaccati al Signore Gesù, più saremo aperti e “universali”, perché ci sentiremo responsabili per gli altri. E l’altro sarà la via per salvare sé stessi: ogni altro, ogni essere umano, qualunque sia la sua storia e il suo credo. A cominciare dai poveri, dai più simili a Gesù Cristo. Il grande arcivescovo di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo scrisse che «se non ci fossero i poveri, in larga parte sarebbe demolita la nostra salvezza» (Sulla II Lettera ai Corinzi, XVII, 2). Il Signore ci aiuti a camminare insieme sulla via della fraternità, per essere testimoni credibili del Dio vero vivo.