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La Madre di Dio, porta che fa entrare la salvezza nel mondo

In questo tempo (Kairòs) dedicato alla preparazione all’incontro con il Signore prima della divina liturgia davanti alle porte regali, il sacerdote e il diacono dopo aver recitato 12 Kyrie eleison e il Gloria al Padre, fanno tre segni di croce e tre metanoie e, baciando l’icona di Cristo dicono:

“Veneriamo la tua purissima effigie, o Buono, chiedendo perdono delle nostre colpe, o Cristo Dio. Ti sei benignamente degnato, infatti, di salire volontariamente con il tuo corpo sulla croce per liberare dalla schiavitù del nemico coloro che hai plasmato. Pertanto con riconoscenza a te gridiamo: Hai riempito di gaudio l’universo, o nostro Salvatore, venuto a salvare il mondo”.

Baciando l’icona della Madre di Dio recitano:

“O Madre di Dio, fonte di misericordia, rendici degni della tua compassione; rivolgi il tuo sguardo sul popolo che ha peccato; mostra, come sempre, la tua potenza. Sperando in te, ti gridiamo: “Gioisci!”, come già Gabriele, il principe delle schiere incorporee”.

È il momento in cui si riconosce l’amore del Padre per gli uomini che ha mosso il Verbo di Dio a farsi carne e a venire nel mondo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). A questo Amore divino si rivolge san Simeone Nuovo Teologo affinché possa diventare anche per noi la porta aperta che ci introduca alla presenza di Cristo: “O divina carità, dove trattieni il Cristo? Dove lo nascondi?… Apri un poco la tua porta anche a noi indegni, perché anche noi vediamo il Cristo che ha patito per noi.. Aprici, tu che sei divenuta sua porta perché egli si manifestasse la carne, tu che hai fatto violenza alle generose e inviolabili viscere del nostro Sovrano, perché egli portasse i peccati e le malattie di tutti… Metti in noi la tua dimora perché, grazie a te, il Sovrano venga a visitare anche noi miseri”.

Questo meraviglioso progetto di salvezza si è potuto realizzare grazia a Maria, che come porta aperta, è stata varcata dal Figlio di Dio. Davanti all’annuncio dell’arcangelo Gabriele, ella rispose in questo modo alla volontà di Dio: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1, 38). Con il suo assenso al mistero della salvezza del Signore, la Madre di Dio è diventata la porta rivolta ad oriente, l’ingresso da cui è entrata nel mondo la Vita che ha sconfitto la morte, così come afferma san Teodoro lo Studita: “Porta che guarda ad oriente, da cui è sorto per gli uomini l’oriente della vita che dirada l’occidente della morte”. La chiesa in questo modo celebra la Natività della Vergine: è nata “la porta che guarda ad oriente…, (che) attende l’ingresso del sommo sacerdote, lei che introduce nel mondo, sola, il solo Cristo, per la salvezza delle nostre anime”.

La Madre di Dio è l’incomparabile porta attraverso la quale s’innalza la luce del divino Amore. L’umanità, per mezzo di Maria, ha incontrato la grande misericordia del Signore Dio onnipotente: “Grazie a te la natura degli esseri umani ha ottenuto pietà…, o pietosa Purissima”

Per questa ragione, prima di incominciare la divina liturgia domandiamo alla Madre di Dio di spalancare la porta del suo amore materno, affinché Cristo Gesù entri in noi e noi in lui.

diac. Antonio Calisi


Kairòs, “prendere tempo” per prepararsi ad accogliere il Signore della storia

Predisposto nello spirito nel corpo, il sacerdote aspetta che giunga il momento fissato della celebrazione della divina liturgia e insieme al diacono “prendono tempo”.

“Tempo” (kairòs) è chiamato un breve rito (o akolouthìa), svolto di fronte alle porte regali. Questo rituale annuncia l’inizio della divina liturgia e ci rammenta che “il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). In questo modo ci si dispone per ricevere il Cristo re della gloria e a prendere parte al banchetto del suo Regno.

L’evento dell’incarnazione del Verbo di Dio, segna una divisione del tempo dandone un senso nuovo: Colui che è senza inizio e che oltrepassa il tempo, entra nella storia e il tempo accoglie l’Atemporale e prende un nuovo corso. Il Dio prima di tutti i secoli diventa uomo e l’Antico dei giorni (cf. Dan 7,9) viene nel mondo e fa nuove tutte le cose nella Vergine Madre di Dio, luogo in cui la natura e tempo sono rinnovati. Vita nuova, Regno nuovo e tempo nuovo: “Quando il primo censimento… segnò il momento della tua venuta sulla terra…, si inaugurava il tuo regno eterno e senza principio” (Orthros di Natale).

Nell’intimo del tempo rinnovato noi credenti viviamo il momento nuovo: la vittoria dell’Amore di Dio sul tempo e sulla morte: “Festeggiamo la morte della morte…, la primizia di un’altra vita, eterna, e cantiamo tripudiante colui che ne è la causa” (Apolytìkion del 2 luglio).

Successivamente alla resurrezione di Cristo, al posto della morte regna la vita e nel profondo del tempo regna la vita eterna. Questo trionfo di Cristo è da noi celebrata con la divina liturgia, dal momento che essa è una Pasqua incessante. Per questa ragione il giorno per eminenza della celebrazione del mistero eucaristico è la domenica, giorno della Resurrezione di Gesù, giorno che esprime il superamento del tempo, perché è il primo giorno della creazione e nello stesso tempo l’ottavo giorno del Regno dei cieli: “il giorno senza sera, senza successione e senza fine”; il giorno “che non ha principio né fine, che non dovrà arrivare in futuro perché adesso non ci sarebbe, ma c’era prima dei secoli, c’è adesso e ci sarà sempre”.

Intorno all’altare della vita “inauguriamo il giorno della salvezza”[5]. Il giorno della divina liturgia è l’ottavo giorno, il giorno dell’era futura, dell’eternità, che nella sua completa dimensione contiene un solo giorno e sopraggiunge quando finisce “questo tempo labile transitorio”.

Il giorno della divina liturgia è il giorno del Regno che “viene ed è ora” (Gv 4,23), giacché nella celebrazione della divina liturgia viviamo il passato e benediciamo il futuro che fin da ora c’è stato donato il regno avvenire.

San Massimo il Confessore scrive che, come i profeti furono precursori della venuta di Cristo nella carne con la loro la predicazione e condussero le anime a lui, allo stesso modo anche Cristo, con l’incarnazione ,”è divenuto precursore della sua gloriosa venuta e spirituale ed educa le anime, con le sue parole, ad accogliere la sua manifesta venuta divina, che gli sempre effettua facendo passare dalla carne allo spirito, mediante la virtù, quelli che ne sono degni, e che effettuerà alla fine di questo secolo, svelando manifestamente le cose finora ineffabile per tutti”.

Nella Divina liturgia colui che è e che era ci manifesta colui che viene (Ap 4,8), per il fatto che la divina liturgia è il momento per sperimentare l’inesprimibile evento “del sempre essere-bene degli esseri” in unione al vero supremo Essere, Gesù Cristo.

La divina liturgia è la riunione di tutti i figli di Dio che si riuniscono in unità, nel luogo dove cielo e terra, passato e futuro si uniscono, dove ogni realtà si raccoglie in unità e, dopo aver accolto la vera Luce che illumina ogni uomo, si diffonde “non solo in tutta l’ecumene, ma anche in tutti i secoli”.

diac. Antonio Calisi


Il sacrificio di sé come preparazione del sacerdote alla Divina liturgia

La preghiera liturgica è sempre supportata da una vita interiore nutrita da un’intima e personale preghiera. Per questo il sacerdote, la sera che precede la divina liturgia, prega purificando il suo cuore da sentimenti che lo allontanano dall’amore, digiuna dal cibo e soprattutto dai pensieri cattivi sull’esempio di Gesù stesso che ha fissato un tempo per restare solo in preghiera con il suo Padre celeste. Il sacerdote deve domandare con zelo a Dio di suscitare in lui le virtù proprie del suo stato. Mortificare in se stesso tutti i vizi per essere riempito dallo Spirito Santo e prepararsi a camminare nella vita nuova.

Il sacerdote prima di offrire il sacrificio eucaristico deve sacrificare se stesso distaccandosi dalle cose del mondo, mettendo a morte le passioni terrene, ovvero convertendosi , perché la via del sacrificio è la via della conversione. Il suo sacrificio spirituale potrà portare frutto nella sua vita e nel ministero solo perché è unito al sacrificio di Cristo: “Nessuno è degno del grande Dio, che è ad un tempo vittima e grande sacerdote, se non ha immolato se stesso già da prima come ostia vivente e santa”. Questa immolazione purifica il corpo e l’anima del celebrante, solo così il Signore gradisce il sacrificio donato da mani pure e da “una mente elevata e purificata “.

Se il sacerdote non si accosta ai santi e divini misteri senza aver prima sacrificato se stesso, non si avvicina alla Luce vera ma ha un fuoco che lo brucia completamente, così come insegna il beato Teognosto: “Se sei stato fatto degno del sacerdozio divino e venerabile, prima devi immolare te stesso con la morte delle passioni e dei piaceri, e poi potrai osare di toccare il vivificante tremendo sacrificio, se non vuoi, come legna facile incendiarsi, essere arso dal fuoco divino”. Ed esorta in questo modo il celebrante: “Versando prima fiumi di lacrime per diventare bianco più della neve, e con la coscienza resa bianca in questo modo della purificazione, tocca, allora, da santo, le cose sante”, “Perché santi devono essere coloro che sono ministri del Dio santissimo”.

Al mattino, in chiesa, il sacerdote domanda la forza da Dio per avvicinarsi al santo altare e per poter dire liberamente al Signore: “Pronto è il mio cuore, o Dio, pronto il mio cuore, canterò e salmeggerò nella mia gloria” (Sal 107,2) e al momento della celebrazione, consapevole di partecipare all’opera di Cristo, esce con il diacono dal santuario e dopo aver fatto l’inchino davanti al seggio episcopale, si pongono davanti alla porta bella e fanno tre metanoie, dicendo ognuno, tra sé: “Dio, sii propizio a me peccatore ed abbi pietà di me!”.

diac. Antonio Calisi


Preparazione del celebrante alla Divina liturgia

Il sacerdote che si pone a servizio della salvezza degli uomini, deve essere distaccato dal peccato e rivolto verso Dio. Il fine del suo ministero è questo: “mettere ali all’anima, strapparla al mondo e consegnarla Dio…; per mezzo dello Spirito Santo insediare Cristo nei cuori perché gli abiti…; rendere (l’uomo) Dio”. Il presbitero nel suo servizio alla Chiesa manifesta la vita nuova generata da Gesù, ossia la vita vissuta in Lui e, dal momento che la divina liturgia è l’evento incomprensibile con il quale la vita di Gesù è donata ai credenti, essa è, contemporaneamente, ugualmente l’essenza del sacerdozio.

Prima di presentarsi all’altare il sacerdote chiede perdono e perdona chi gli ha fatto del male secondo l’insegnamento di Gesù: ” Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.” (Mt 5,23-24). San Giovanni Crisostomo è meravigliato davanti all’amore di Gesù: “O Mirabile bontà di Dio! O amore che va al di là dei nostri pensieri! Egli trascura l’onore che deve essergli reso, onde salvare la carità che noi dobbiamo avere per il prossimo… Perché anche questa è offerta e sacrificio: la riconciliazione con il fratello… egli apprezza immensamente la carità, da lui ritenuta il massimo sacrificio che gli si possa fare, e senza la quale non accetta neppure il culto… La santa mensa non accoglie coloro che sono in lite l’uno con l’altro”.

Nel Prato spirituale si riporta il seguente racconto: «Nell’isola di Cipro si trova una città, chiamata Amathus, in cui diviene vescovo di santissimo Giovanni, le cui imprese divine e anzitutto l’amore che nutriva per il prossimo e la sua estraneità ad ogni rancore è impossibile narrare. Egli aveva un diacono a capo delle affari della diocesi. Discorrendo con il vescovo e lasciandosi trasportare dalla foga, il diacono l’oltraggiò, in un giorno di festa, mentre quelli si apprestava a celebrare la liturgia. Quando giunse il momento del bacio delle icone, per “prendere tempo” e rivestirsi dei paramenti, il diacono, che si vergognava della parola indirizzata al presule, non venne a unirsi a costui. Allora il vescovo ricercò come un buon pastore la pecorella smarrita dicendo: “Oggi non si celebra la liturgia se non viene qui il diacono Epifanio”. Quando il diacono arrivò, il buon pastore lo abbracciò e egli si prostrò davanti come se a sbagliare fosse stato lui stesso. Dopo che ebbero indossato le vesti sacre, ordinò che gli fosse dato il ripidion[1] perché lo accompagnasse nella divina liturgia. Dopo il congedo, invitò diacono a pranzo; al termine gli donò uno stichàrion[2] di pura seta che valeva 12 monete e in questo modo lo lasciò andare in pace. I parenti del vescovo mormoravano dicendo: “Se non ti fai temere dagli insolenti, tutti ti copriranno di disprezzo”. Ma l’uomo di Dio, rimproverandoli duramente e con fare autoritario, li biasimò con queste parole: “Non sapete quel che dite, non sapete che il Signore oltraggiato non rispondeva agli oltraggi, colpito non rispondeva ai colpi… Credetemi, figli, ho l’abitudine, quando offro il sacrificio incruento, prima di iniziare la preparazione delle oblate, di elevare una preghiera a Dio per la mia nullità e per voi. Oggi, tuttavia, quando ho cominciato l’orazione, ho pregato anche tutto – e con lacrime – per il diacono, perché Dio gli perdonasse, e subito ho visto la grazia di Dio scendere dall’alto sull’altare. Se dunque volete anche voi meritare una tale visione, offrite sacrifici simili a Dio sinceramente, dimenticando i torti ricevuti, perché altra strada che porti celere a Dio non esiste”».

[1] Il ripidion è un ventaglio cerimoniale utilizzato nel rito orientale e viene agitato dal diacono durante l’epiclesi e simboleggia gli angeli che gioiscono e svolazzano alla discesa dello Spirito Santo che santifica i Santi Doni presenti sull’altare.

[2] Lo sticharion è un paramento liturgico delle Chiese orientali più o meno analogo in funzione al camice della Chiesa occidentale.

diac. Antonio Calisi


La divina liturgia forma la Chiesa

Tutte le volte che i credenti si radunano in un posto convenientemente dedicato e in un momento fissato per officiare la divina eucaristia, questa adunanza rivela il mistero della Chiesa. La prima mistica cena è l’istituzione storica dell’eucarestia e della Chiesa, entrambe sono il medesimo Corpo di Cristo. Inserendoci nella Chiesa, Cristo “ci ha fatto il suo corpo e (attraverso l’eucaristia) ci ha trasmesso il suo proprio corpo”.

La mistica cena del Signore contiene il suo sacrificio sulla croce, espressione massima dell’amore di Dio, che è il principio su cui si fonda la Chiesa. Il sangue e l’acqua che sgorgano dal costato di Gesù, nel momento in cui uno dei soldati lo trafisse con la sua lancia (cf. Gv 19,34), sono figure del Battesimo e dell’Eucarestia. Questi due sacramenti hanno il loro inizio dal Crocifisso e fondano la Chiesa. “Uscì dal fianco sangue ed acqua. Non sorvolare semplicemente, o diletto, il mistero, perché io ho ancora un’altra interpretazione mistica da esporre. Dissi che quel sangue quell’acqua sono simboli del battesimo e dei misteri (della divina eucaristia). Da questi due è stata generata la Chiesa”. “Uscì sangue ed acqua… Da qui traggono inizio i misteri”.

La Chiesa si ciba di Cristo: Cristo “nutre di sé coloro che ha generati (nel santo battesimo)”. Questo celeste alimento forma la Chiesa in corpo di Cristo: Cristo “è colui che per noi si è fatto cibo; con lui che ci mescoliamo e ci fondiamo, e così siamo fatti di Cristo corpo uno e carne una”. Afferma san Paolo: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,17). Grazie quell’unico pane, siamo un unico corpo, la Chiesa, in Cristo. In questa maniera qualsiasi assemblea eucaristica è in comunione con ogni comunità che forma la Chiesa intera, perché l’eucaristia è il mistero di Cristo.

Nella sua incarnazione Gesù Cristo “ha assunto carne di chiesa”; “è venuto nella casa di lei e ha trovato lei infangata, insudiciata, spoglia, sporca di sangue; l’ha dunque lavata (con il santo battesimo), l’ha unta (con il santo crisma), l’ha nutrita (con la divina comunione), l’ha vestita con una veste di cui non puoi trovare eguale; dopo esser divenuto lui stesso la sua veste e averla presa per mano, la risolleva in alto”. La conduce nel Regno di Dio dove dove si celebra l’eterna celeste liturgia.

diac. Antonio Calisi


La divina liturgia incorporazione del fedele in Cristo

Con l’eucaristia Cristo Gesù si offre all’uomo nel suo Corpo e nel suo Sangue affinché l’uomo diventi “un solo corpo (syssomos) e un solo sangue (synaismos) con lui” come egli stesso ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56). Nel suo grande amore per l’uomo, Cristo ha assunto in sé la natura umana per donare all’uomo la vita divina.

Con queste parole si esprime san Giovanni Crisostomo:

“il miracolo dei misteri, cosa sia mai, perché fu dato, quale ne sia l’utilità. Diventiamo un solo corpo e membra, è scritto, tratte dalla sua carne e dalle sue ossa (Ef 5,30)”… Per non diventare dunque un solo corpo con Cristo unicamente nell’amore ma nella realtà stessa, mescoliamoci con quella carne! Ciò avviene con il cibo che gli ci ha donato, quando ha voluto mostrarci l’amore appassionato che nutre per noi… Per questo si è mischiato con noi ed è divenuto con noi un solo corpo, perché fossimo con lui una cosa sola, com’è il corpo è congiunto alla testa. Segno, questo, di coloro che amano con ardore”.

Non in teoria, “ma nella realtà stessa”, il credente grazie alla divina eucaristia diviene un solo corpo con Cristo, un’unica unione, un unica mescolanza. All’amore infinito di Dio non sono bastati l’incarnazione, la morte sulla croce e la sepoltura, ma è voluto andare oltre, sino alla donazione di sé nell’eucarestia, cristificando, rendendo simile a sé l’uomo. Come ancora aggiunge il Crisostomo, Cristo “fonde se stesso con noi, e non solo per la fede ma nella stessa realtà ci rende suo corpo”. Al termine dell’Omelia XV sulla Prima Lettera a Timoteo, san Giovanni Crisostomo, facendo parlare Gesù in prima persona, dice:

“Sono disceso di nuovo sulla terra, non solo per mescolarmi tra quelli della tua gente, ma anche per abbracciarti: mi lascio mangiare da te e mi lascio sminuzzare in piccole parti, affinché la nostra unione mescolanza siano veramente perfette. Infatti, mentre gli esseri umani che si uniscono conservano ben distinta la loro individualità, io invece costituisco un tutt’uno con te. Del resto non voglio che qualcosa si frappongono fra noi; questo solo io voglio: essere entrambi una cosa sola”.

Fra Cristo è il credente non si interpone più niente e nella fiamma del suo amore tutto si è fuso: “Noi è Cristo siamo una cosa sola”.

San Simeone il Teologo, con il cuore ricolmo di Cristo, sciogliendo la sua lingua, canta nel suo Inno:

” membra di Cristo diventiamo,

e Cristo diviene le nostra membra:

Cristo, la mano mia, e Cristo il piede mio

– di me, tutto miseria -:

e io, miserabile, mano di Cristo e piede di Cristo.

Muovo la mano, e la mia mano è Cristo tutto intero

–  considera anche l’indivisibile divinità divina -.

Muovo il piede, ed ecco, brilla come lui.

Non dire che bestemmio, ma accogli quanto attesto

e adora il Cristo che di te fa questo”.

Il credente riempito della luce di Cristo, sfolgora totalmente e tutte le sue membra diffondono luce, pervadendo il mondo della luce di Cristo.

Per questa ragione, il grande mistero dell’unione mistica, non implica soltanto il singolo fedele, ma tutto il mondo. Presentando a Dio pane e vino offriamo il mondo che diventa eucaristia: “Quando il calice mescolato e il pane preparato ricevono la parola di Dio (cioè la supplica dello Spirito Santo) divengono eucarestia, cioè il sangue e il corpo di Cristo”, dice sant’Ireneo di Lione.

Riporta in questo modo l’Anafora di Basilio: “Ti preghiamo e ti invochiamo, o Santo dei santi: per il beneplacito della tua bontà, venga il tuo Spirito su di noi e sui doni qui presenti … Crea l’unità tra tutti noi che comunichiamo all’unico pane e all’unico calice, nella comunione dell’unico Spirito”. Grazie allo Spirito Santo, la santità di Dio si trasmette ai fedeli radunati nel medesimo luogo e per la stessa azione e li trasforma un solo corpo, nel corpo di Cristo. Questa unione, sicuramente personale, è anche ecclesiale ed universale. Non solo l’uomo è santificato e cristificato, tutta la creazione è santificata e rinnovata. L’uomo diventa, per grazia, Cristo e il mondo la casa di Dio. Il sacramento dell’eucaristia diviene l’ingresso tramite cui Cristo entra nell’uomo e nel mondo, come dice san Nicola Cabasilas: “è questa la via (la via dei santi misteri) che il Signore ha tracciato venendo a noi, è questa la porta da lui aperta entrando nel mondo; né, nei quando è tornato al Padre, ha voluto chiuderla, ma per essa dal Padre ritorna agli uomini”.

diac. Antonio Calisi


La divina liturgia è l’incontro tra cielo e terra

Nella riunione eucaristica dei fedeli, la presenza della Santa Trinità realizza il vero e grande incontro tra cielo e terra e diventa il luogo dove Dio viene ad abitare, dove Dio “pone la tenda con gli uomini” (Ap 21,3). Non solo l’uomo, ma tutto il creato, tutte le realtà, si radunano nello stesso posto nello stesso tempo e insieme (ἐπὶ τὸ αὐτὸ) per magnificare Dio, “sull’altare posto davanti al trono” di Dio (Ap 8,3), così come insegna san Dionigi: “la bellezza sovra- essenziale, è chiamata bellezza…, perché chiama a sé tutte le cose… e tutte le raccoglie insieme”.

Questa è la realtà della divina liturgia: l’intera creazione si raduna in unità nello stesso luogo per benedire Dio e mettersi in cammino verso il Regno dei cieli. Per questo motivo san Giovanni Crisostomo e altri padri definiscono la divina liturgia sinodo (gr. σύνοδος composto da σύν «con, insieme» e ὁδός «via»), perché tutti insieme camminiamo verso Dio: “Nessuno di coloro che mangiano questa Pasqua (la divina eucaristia) guarda l’Egitto, ma al cielo, alla Gerusalemme celeste”.

Nela divina liturgia è presente Gesù Cristo: “Quando stai per accostarti alla sacra mensa, credi che lì è presente il Re di tutti”. È il Signore Gesù, “che raduna (ekklêsiàzôn) tutte le creature” e invita intorno al santo altare tutte le realtà e “provvidenzialmente le unisce sia a se stesso che fra di loro”.

Vicino a Gesù c’è la Madre di Dio, perché ancor prima che Gesù preparasse la sua Cena, nella Madre sua si è compiuto, per la grazia dello Spirito Santo, la verità soprannaturale della nostra redenzione: “Il tuo seno è divenuto mensa santa su cui ha riposato il Pane celeste”.

Nella divina liturgia la Regina dei cieli siede alla destra del Re: “Dove Cristo si è assiso… sta anche lei… perché davvero è il suo trono: dove siede il re, lì vi è il suo trono”.

Le schiere angeliche sono la corte celeste di Gesù Cristo. Il Signore procede verso il Golgota “invisibilmente scortato dalle angeliche schiere”, e nell’istante dell’oblazione le creature ultraterrene celebrano insieme a noi l’amore di Dio.

Insieme agli angeli compartecipano alla divina eucaristia “il coro dei santi” riuniti intorno all’altare, vicino a Cristo, “si trova, inseparabilmente, la schiera dei santi”. Nella riunione eucaristica si festeggia la vittoria di Gesù Cristo e coloro che sono uniti a Lui nel sinodo, sono partecipi in quella circostanza: “Quando si celebrano i trionfi dei re per la vittoria sono a chiamati anche coloro che vi hanno preso parte…, così anche qui: questa è l’ora del trionfo”.

Nella Divina liturgia prendono parte anche i nostri fratelli deceduti per i quali imploriamo la compassione di Dio e ricordarli nella sinassi liturgica significa “molto profitto, grande giovamento” per le loro anime.

In questa maniera, cielo e terra, angeli e uomini, vivi e defunti celebrano congiuntamente e benedicono il Signore per la sua grande misericordia. “Terra e mare, regioni abitate e regioni deserte inneggiano eternamente, rendendo grazie per i beni ricevuti”. Tutti gli esseri umani innalzano la loro gratitudine “A colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e Potenza, nei secoli dei secoli” (Ap 5,13).

diac. Antonio Calisi


La Divina Liturgia manifestazione della Trinità

La divina economia è una teofania trinitaria dell’amore di Dio per l’uomo che si manifesta nella divina liturgia in cui il fedele vive, per grazia, questo mistero. Come dice san Giovanni il Teologo, il suo celebrante “ci svela la santa Trinità”.

Sin dall’inizio la Divina liturgia ci invita a entrare nel mistero della presenza trinitaria con le parole del sacerdote: “Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.

Seguono le ekphoneseis[1] (greco ἐκφώνησις “esclamazione”) trinitarie, le tre antifone, l’inno trisagio in cui cantiamo “alla Trinità vivificante” e giungiamo al momento centrale della divina liturgia in cui ci viene offerto dal celebrante “la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito santo”.

In seguito ringraziamo Dio per tutto quello che ha compiuto i noi con il suo amore: “Tu dal nulla ci hai tratti all’esistenza e, caduti, ci hai rialzati; e nulla hai tralasciato di fare fino a ricondurci al cielo e a donarci il futuro tuo regno. Per tutti questi beni rendiamo grazie a te, al unigenito tuo Figlio e al tuo Spirito santo”. Successivamente a questo ringraziamento, si supplica il Padre delle luci affinché invii lo Spirito Santo Paraclito a consacrare l’offerta del Figlio. Lo Spirito Santo Paraclito viene come “il sussurro di una brezza leggera” (cf. 1Re 19,12) e compie lo straordinario miracolo, offrendoci la presenza di Gesù Cristo. Comunicando al santo Corpo e al preziosissimo Sangue di Cristo diventiamo abitazione della Santa Trinità. Il cuore e il corpo dei credenti si riempiono della luce divina divenendo abitazione del Dio trinitario, ospitando in sé l’amore trinitario. Perché, dice sant’Atanasio, «se “uno” è in noi, è possibile dire che la Trinità (intera) è in noi». San Giovanni Crisostomo, a riguardo del fedele che si è unito a Cristo nell’eucaristia, afferma: “Ha Cristo dimorante in se stesso, e il Padre di lui, e il Paraclito”.

E ancora così insegna il santo patriarca di Costantinopoli, Germano “Diventando così testimoni oculari dei misteri di Dio, partecipi della vita eterna e partecipi della natura divina, glorifichiamo il grande, incommensurabile e inscrutabile mistero della dispensazione di Cristo Dio, e glorificandolo, gridiamo: “Ti lodiamo” – Dio e Padre – “Ti benediciamo” – Figlio e Logos – “Ti rendiamo grazie” – Spirito Santo – “O Signore nostro Dio” – la Trinità nell’unità consustanziale e indivisa, che possiede meravigliosamente sia la distinzione delle Persone sia l’unità della sola natura e divinità”[2].

Alla fine della divina liturgia la nostra anima diventa “Cristofora” portatrice di Cristo” ed effonde la luce trinitaria a tutti coloro che incontriamo: “Abbiamo visto la luce vera, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la vera fede, adorando la trinità indivisibile: essa infatti ci ha salvati”.

[1] Sono delle conclusioni che lodano, esaltano e glorificano Dio cantate ad alta voce, a conclusione di una preghiera recitata dal celebrante nella liturgia orientale.

[2] GERMANO DI COSTANTINOPOLI, Storia ecclesiastica e contemplazione mistica, traduzione, introduzione e note a cura di Antonio Calisi, Infinity Books, Malta 2020, p. 92.

diac. Antonio Calisi


La Divina Liturgia compendio di tutta l’economia della salvezza

Gli avvenimenti realizzati meravigliosamente da Dio per ricondurre tutta l’umanità, dopo la caduta nel peccato originale, nel suo Regno e renderlo nuovamente suo familiare, sono definiti nel loro insieme divina economia. San Basilio il Grande afferma: “L’economia di Dio e nostro Salvatore, riguardo all’uomo, consiste nel richiamarlo dalla sua condizione di decadimento, nel ricondurlo alla familiarità di Dio dallo stato di alienazione causato dalla disobbedienza”. Nella Divina liturgia noi viviamo nello Spirito Santo questa economia compiuta in Gesù Figlio di Dio per la nostra salvezza, tributando gloria, lode e ringraziamento a Dio Padre. San Giovanni Crisostomo ci rammenta: “I misteri pieni di doni di salvezza che celebriamo in ogni riunione liturgica sono chiamati “eucaristia”, cioè ringraziamento, perché sono il memoriale dei molti benefici ricevuti e presentano la manifestazione più elevata della provvidenza di Dio”.

Nella Divina liturgia il credente rivive questo mistero che “riassume figuralmente l’intera legge (della Provvidenza)”[1] e nei segni misterici, sperimenta la sua realizzazione. Per questo motivo alla fine il celebrante ancora san Basilio ci dice: “È compiuto è terminato, o Cristo Dio nostro, il mistero della tua economia”.

Come dice il Crisostomo, il mistero della economia divina si è rivelato contemporaneamente al peccato di Adamo e Dio, amico degli uomini “vide subito quant’è era successo (la caduta) e la grandezza della piaga, e si affrettò a procedere alla cura perché essa, allargandosi, non si convertisse in una ferita inguaribile… Nemmeno per un istante cessò, mosso dalla sua bontà, di provvedere all’uomo”. Con azioni straordinarie e attraverso i profeti, Dio disponeva l’umanità a prendere parte alla totalità della sua vita e del suo amore.

Molti sono gli avvenimenti e gli annunci profetici dell’Antico Testamento che simboleggiano esplicitamente il grande mistero del sacrificio eucaristico. Il primo è sicuramente il dono del pane e del vino fatto da Melchìsedek re di Salem ad Abramo (cf. Gn 14,18-20). Come afferma san Giovanni Damasceno, Melchìsedek “era figura ed immagine del vero sommo sacerdote Cristo” e Giovanni Crisostomo dice: “Egli, “mosso da spirito profetico, avendo compreso che l’oblazione futura sarebbe stata presentata per le genti, prestava culto a Dio con pane e vino, imitando il Cristo venturo”. Nello Spirito Santo, Melchìsedek richiama quello che non era ancora compiuto in cui la sua offerta è imitazione dell’offerta di Cristo.

Il sacrificio di Isacco (Gn 22, 1-14) è analogamente un preannuncio del sacrificio di Cristo e dell’oblazione eucaristica, così come il sacrificio del profeta Elia sul monte Carmelo, mentre sfida i profeti di Baal, (1Re 18, 1-40). Nella visione di Isaia in cui viene investito della missione profetica (Is 6, 1-7) si richiama una situazione liturgica dove il Signore è assiso in trono, circondato dai serafini, i quali cantano il trisagio, nel momento in cui viene presentato il sacrificio dell’incenso. Il sogno del patriarca Giacobbe che vide una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio che salivano e scendevano su di essa. (Gn 18,12) e la profezia di Malachia “Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le nazioni e in ogni luogo si brucia incenso al mio nome e si fanno offerte pure, perché grande è il mio nome fra le nazioni. Dice il Signore degli eserciti” (Mal 1, 11) si riferiscono alla divina eucarestia.

Sicuramente la pasqua ebraica è l’avvenimento prefigurativo per l’eccellenza dell’eucaristia. Questa festa è un ricordo e un’incessante ringraziamento a Dio per la sua salvezza operata nei confronti degli ebrei liberati dalla schiavitù dell’Egitto. Gli eventi che si sono verificati durante la fuga, come dice san Giovanni Crisostomo, sono “misteri tremendi e terribili, ricchi di grande profondità. Se poi quei misteri sono così terribili nelle figure, quanto più nella verità… Ora, la verità è questa. Anche noi mangiamo la Pasqua, Cristo!”.

Tutti gli avvenimenti narrati nell’Antico Testamento hanno predisposto, nella pienezza dei tempi, la manifestazione della verità che è Gesù Cristo “per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9, 26), rivelando così la vera grandezza del mistero della divina economia. Perché Gesù Cristo è la sintesi di questo mistero e come dice Teodoro vescovo di Andida, ciascun evento della sua vita trova nella celebrazione eucaristica: “ciò che si compie nel divino sacrificio immagine della salvifica passione, sepoltura e resurrezione di Cristo… e di tutta la sua salvifica permanenza tra noi ed economia nei nostri confronti”. Nella Divina liturgia, dice Dionigi l’Areopagita, il celebrante, “stando davanti al divino altare celebra le sante operazioni di Gesù… In seguito… opera i divinissimi misteri e porta alla vista le cose celebrate”. San Nicola Cabasilas afferma che innanzi a noi si svolge tutta la vita di Cristo, perché “l’intera mistagogia è come un’unica rappresentazione di un medesimo “corpo”, che è la vita del Salvatore”.

Poiché gli occhi della fede vedono l’invisibile, il luogo dove si officia l’eucaristia è la grotta dove è nato il Salvatore, dove ogni credente, dice Crisostomo, deve “accorrere a Betlemme (la chiesa), dov’è la casa del pane spirituale”. Allo stesso modo con gli Apostoli noi prendiamo parte al banchetto mistico della Prima Cena, perché nella Divina liturgia, dice ancora il nostro santo Arcivescovo di Costantinopoli, “c’è la stessa cena alla quale Gesù prese parte con gli apostoli. Non c’è infatti nessuna differenza tra l’ultima cena e la cena dell’altare” e ancora afferma: “Questo è lo stesso cenacolo dove, allora, erano riuniti Gesù e gli apostoli; di là essi uscirono per andare al monte degli Ulivi”.

Il santo altare è il Golgota: “Questo (il mistero dell’eucaristia) è tipo di quello (il sacrificio del Golgota), e viceversa: poiché offriamo sempre lo stesso Cristo”, ci rassicura san Giovanni Crisostomo, e ancora, ed è anche il santo sepolcro, luogo della resurrezione “Il mistero celebrato a Pasqua non è per nulla più grande di quello che ora stiamo celebrando. È un unico e medesimo mistero, come medesima e la grazia dello Spirito: è sempre Pasqua”.

La Divina liturgia è la Pasqua perpetua della Chiesa, l’inizio della nuova era che entra impetuosamente in quello vecchio in cui ci dona la presenza vera del Regno di Dio come leggiamo nell’anafora di San Giovanni Crisostomo: “Non hai cessato di fare tutto quanto era necessario per ricondurci al cielo, e ci hai fatto dono del tuo regno futuro”. Così Dio ci dona già in questa vita presente il suo Regno, facendoci passeggiare con Lui nel giardino alla brezza del giorno (cf. Gen 3,8).

Come abbiamo visto, nella Divina liturgia sono compresenti le realtà lontane e vicine, il principio e la fine, in cui si attualizza il mistero di Gesù Cristo. E come Gesù Cristo è “l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap 22,13), allo stesso modo la Divina liturgia è, in Gesù Cristo, il punto di incontro dello spazio e del tempo e della loro trasfigurazione in uno spazio e in un tempo liturgico.

[1] TEODORO LO STUDITA, Prima Confutazione, 10, PG 99, 340C; cf. TEODORO LO STUDITA, Antirreheticus Adversus Iconomachos. Confutazioni contro gli avversari delle sante icone, Traduzione, introduzione e note a cura di A. CALISI, Independently published 2019, p. 35.

diac. Antonio Calisi


San Giovanni Crisostomo e la Divina liturgia

San Giovanni Crisostomo (Antiochia di Siria, 344/354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), fu arcivescovo di Costantinopoli. È noto per le sue potenti omelie, per la sua capacità di parlare, per la sua denuncia degli abusi commessi dai capi politici ed ecclesiastici del suo tempo e per le sue pratiche ascetiche. Il suo zelo e il suo rigore furono causa di forti opposizioni alla sua persona. Dovette subire un doppio esilio e durante un trasferimento morì. Grazie alle sue doti retoriche gli fu dato il soprannome di Crisostomo (in gr. χρυσόστομος, chrysóstomos, letteralmente «bocca d’oro»), titolo definito per la prima volta nella “Costituzione” di Papa Vigilo nel 553.

Come filosofo e teologo, Giovanni riecheggia e trasferisce efficacemente nell’omiletica i temi della tradizione patristica greca e soprattutto della scuola antiochena. La sua personalità è quella di un uomo innamorato della morale, vissuta come “amore in atto”, desideroso di riformare la vita cristiana, secondo l’ideale delle primitive comunità cristiane.

All’epoca di san Giovanni Crisostomo la Liturgia iniziava con l’ingresso del vescovo nel tempio e il dono della pace al popolo: “Il padre (vescovo), entrando qui (nel tempio), non sale sul suo seggi senza aver prima augurato la pace a tutti!”. Il popolo ricambiava l’augurio ricevuto dicendo: “E allo Spirito tuo”. Venivano dopo tre letture bibliche: una presa dai profeti, una dagli scritti apostolici e una dai Vangeli. Finite le letture, il vescovo illustrava la Parola di Dio; in seguito si pregava per i catecumeni e per i fedeli penitenti.

Una volta mandate via queste persone, le porte della chiesa venivano chiuse. Era il momento delle preghiere dei fedeli, il grande ingresso e del bacio dell’amore. Seguiva l’anafora, con il canto dell’inno di vittoria, le parole di Cristo l’invocazione, epiclesi, nello Spirito Santo. La liturgia proseguiva con le intercessioni per i fedeli, il Padre Nostro, la Comunione, il ringraziamento e il commiato dei fedeli.

Giovanni Crisostomo, come Basilio, compilando la divina liturgia ha utilizzato antiche preghiere liturgiche. Alcune preghiere, nondimeno sono state scritte sin dall’inizio da lui. Il suo biografo Giorgio di Alessandria riferisce che, quando il santo era a Cucusa in Armenia, ordinò sette vescovi e molti presbiteri per i bisogni della Chiesa in quel luogo, “stabilendo per essi anche regole per la salmodia, consegnando adesso, altresì, la divina mistagogia”.

Il cuore della liturgia è formata da una sequenza di orazioni che ci sono state tramandate fondamentalmente nella forma in cui le proferiva san Giovanni Crisostomo quando era vescovo a Costantinopoli. In riferimento al loro argomento specifico e fino alla loro stessa precisa formulazione, questi testi appartengono palesemente alla modalità di scrittura che rimandano alle opere di san Giovanni Crisostomo.

La liturgia di san Giovanni Crisostomo nella sua forma odierna presenta aggiunte successive: l’inizio differente (VIII secolo), il trisagio e il simbolo di fede (V secolo), l’inno O figlio unigenito (Ho monoheghenes), l’inno cherubico e lo zéon (VI secolo), la soppressione della lettura tratta dai libri profetici. Similmente, nell’VIII secolo la preparazione dei Santi Doni (Proskomidi) è stata anticipata prima dell’inizio della liturgia.

Argomentando sul servizio sacerdotale all’altare, san Giovanni Crisostomo ci riferisce senza intenzione, le proprie esperienze liturgiche.

Il vero celebrante della Divina liturgia è Cristo: Colui che ha celebrato l’Eucaristia “durante quella cena anche oggi opera lo stesso miracolo. Noi abbiamo l’ordine di ministri, ma è lui che santifica e trasforma le offerte”. Il celebrante, offrendo se stesso a Cristo, diviene strumento di Cristo, sta al posto di Cristo.

Il sacerdote, spiega san Gregorio il Teologo, si trova in compagnia degli angeli, glorifica Dio con gli arcangeli, eleva i sacrifici all’altare dal cielo, officia con Cristo. E prosegue: “Io so di chi siamo ministri, dove ci troviamo e dove ci dirigiamo”. Il sacerdote è sulla terra e si spinge nel cielo. Sta tra terra e il cielo, tra l’uomo e Dio: “Il sacerdote sta in mezzo tra Dio e la natura umana, facendo scendere verso di noi i benefici che provengono di lì e innalzando fino a lì le suppliche che nascono da noi”. La celebrazione della Divina liturgia pone il celebrante nel cielo: “Il trono del sacerdote è situato nei cieli “, scrive san Giovanni Crisostomo. Perché, “quando il sacerdote invoca lo Spirito santo e compie il sacrificio tanto terribile ed è a contatto continuamente col comune Signore di tutte le cose, dimmi, in quale ordine lo porremmo? Quale purezza e quale pietà non cercheremo da lui?”. Dal sacerdote si pretende una santità celestiale, perché sia esecutore in un’opera che Dio non ha assegnato nemmeno agli angeli.

Davanti all’altare san Giovanni Crisostomo viveva il mistero dell’Amore di Dio, accogliendo dal cielo l’Amore divino che donava ai suoi figli sulla terra. La sua vita la sua parola, il suo martirio sono di conseguenza il migliore commento della Divina liturgia che egli potesse dare, poiché la Divina Liturgia, ossia Gesù Cristo, era la sua vita e la sua vita era una continua liturgia eucaristica che egli elevava a Dio.

diac. Antonio Calisi