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La Mistagogia di Massimo il Confessore

Massimo il Confessore (Palestina, 579/580 – Lazica, 13 agosto 662) scrisse nel 630 a Cartagine la sua Mistagogia[1] che dedicò al senatore e presbitero Teocaristo, un parente dell’eparca d’Africa Giorgio e fratello dell’esarca d’Africa[2]. Il suo è il primo e il più importante testimone della liturgia eucaristica del suo tempo e la sua interpretazione mistagogica dei sacri riti taglia i ponti con quella delle catechesi mistagogiche di epoca patristica.

Rivolto ai monaci, il lavoro ha lo scopo di combinare la tradizione spirituale monastica con la mistica[3]. Massimo voleva mostrare l’importanza della liturgia per la vita monastica e correggere una tendenza che considerava poco importante per la pietà eucaristica. Questo trattato rimane una fonte importante per la conoscenza della comprensione bizantina della liturgia nel periodo immediatamente precedente a Germano.

Due sono state le tradizioni decisive nella formazione di Massimo come esegeta biblico: la tradizione alessandrina di Filone e Origene, per il tramite della meditazione dei Padri Cappadoci e dell’Areopagita e la tradizione monastica orientale che ha trattato la Sacra Scrittura come un tesoro di narrativa ascetica e di exempla, spesso agiografici e istruttivi per la vita cristiana. Massimo si riferisce in modo particolare alla Gerarchia ecclesiastica dello Pseudo-Dionigi da cui attinge sia la terminologia della sua dottrina che quella di altri autori neoplatonici come Procolo. Tuttavia a differenza dello Pseudo- Dionigi, Massimo vede rappresentata nella liturgia tutta la storia della salvezza, dall’incarnazione alle realtà ultime escatologiche. Il suo approccio, però, rimane essenzialmente alessandrino in quanto egli considera limitatamente gli eventi terreni della salvezza, sottolineando l’incarnazione di Cristo e allontanandosi virtualmente dal mistero pasquale.

L’approccio di Massimo alla liturgia è su due livelli: uno, che è definito “generale” (γενικώς) e l’altro, “particolare” (ἰδικῶς); per ogni parte della liturgia vengono offerte due spiegazioni: un significato generale che si riferisce al mistero della salvezza dell’intero cosmo e che ha alla base un metodo di interpretazione tipologico e un significato particolare che si riferisce ad ogni persona e che parte da un’interpretazione di natura anagogica. Possiamo vederlo fin dall’inizio del suo commento, quando descrive il simbolismo della costruzione di chiese. La chiesa è, innanzitutto, un’immagine dell’intero universo:

“Per quanto riguarda un secondo aspetto, era solito dire che la santa Chiesa di Dio è tipo e immagine del mondo tutto, costituito di sostanze visibili e invisibili, poiché contiene la stessa unione e diversità di Dio. Infatti come essa, pur essendo un solo edificio in relazione alla costruzione, ammette una diversità per una certa qualità della forma, in relazione alla posizione, distinguendosi a sua volta nel luogo riservato ai soli sacerdoti e ministri, che chiamiamo santuario, e in quello libero per l’accesso a tutti i laici fedeli, che chiamiamo tempio. […] E così anche tutto il mondo degli esseri, venuto da Dio quanto alla creazione, distinto in modo intellegibile, composto di essenze intellettuali e incorporee, e in questo mondo sensibile e corporeo e magnificamente intessuto di molte nature con forma sensibile, si rivela sapientemente per mezzo di questa – prodotta dall’uomo -, e avendo come santuario il mondo superiore, assegnato alle potenze superne, e come tempio il mondo di quaggiù, assegnato a coloro che hanno ottenuto in sorte il vivere soggetti alle sensazioni”[4].

Il significato particolare rende simbolico l’edificio della chiesa nell’individuo:

“E inoltre, secondo un altro modo di considerarla, diceva che la santa Chiesa di Dio è un uomo, avendo per anima il santuario, per intelligenza l’altare divino e per corpo il tempio, giacché è a immagine e somiglianza dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo del tempio come del corpo, propone la filosofia morale; per mezzo del santuario, come dell’anima, espone spiritualmente la contemplazione naturale e per mezzo dell’intelletto, l’altare divino, mostra la teologia mistica”[5].

In questa maniera l’autore procede anche alla descrizione della Divina Liturgia: il sacerdote che presiede la celebrazione eucaristica, che inizia con il suo ingresso in chiesa, in processione con i fedeli, sta a significare

“… la conversione degli infedeli dalla mancanza di fede alla fede e dall’ignoranza e dall’errore al riconoscimento di Dio il mutamento dei fedeli dalla malvagità e dall’ignoranza alla virtù e alla conoscenza. Infatti l’ingresso nella chiesa non solo dimostra la conversione degli infedeli verso il vero e unico Dio, ma anche la correzione per il tramite del pentimento di ciascuno di noi che, pur essendo fedeli, violiamo i sacramenti del Signore con la tendenza a una vita intemperante e sconveniente”[6].

Per Massimo, la venuta di Cristo nel mondo ha riavvicinato l’uomo a Dio, dunque la celebrazione dell’eucaristia è strettamente legata alla storia di Cristo e a quella della Chiesa nel suo cammino verso il Regno dei cieli; perciò l’entrata del vescovo e dell’assemblea nella Chiesa è tipo e immagine della prima venuta del Cristo. Il momento in cui il sacerdote entra nel santuario e si siede in cattedra augurando la pace all’assemblea, che risponde “Con il tuo spirito”, rappresenta simbolicamente l’ascensione di Cristo in paradiso. Segue la liturgia della Parola con la serie di letture, due dell’Antico Testamento e una dall’epistolario paolino. Ogni lettura è preceduta dall’augurio della pace e seguita da un canto.

Successivamente vi è il Piccolo ingresso:

“… il primo ingresso del sacerdote nella santa chiesa nel corso della santa sinassi è tipo e immagine della prima venuta del Figlio di Dio nella carne in questo mondo…”[7].

La lettura del Vangelo, la discesa del vescovo dal trono, l’espulsione dei penitenti e dei catecumeni simboleggiano la Seconda Venuta di Cristo e il giudizio finale,

“… significa il compimento di questo mondo. Infatti, dopo la divina lettura del santo Vangelo, il sacerdote scende dal trono e per mezzo dei ministri avviene la dimissione e l’espulsione dei catecumeni e degli altri impegni della divina contemplazione dei misteri che saranno mostrati, contemplazione che di per se stessa significa figura la verità, della quale è immagine e tipo…”[8].

“La chiusura delle porte della santa Chiesa di Dio, che avviene dopo la sacra lettura del santo Vangelo e il congedo dei catecumeni, mostra l’uscita delle cose materiali dopo quella terribile separazione e quella sentenza ancora più terribile, [raffigura inoltre] l’ingresso di coloro che ne sono degni nel mondo intelligibile, cioè nel talamo di Cristo, e la perdita completa, nei nostri sensi, dell’attività ingannatrice”[9].

Dopo la proclamazione del Vangelo, il vescovo scende dalla cattedra, pronuncia l’omelia e vengono congedati i catecumeni e quanti sono in penitenza; questo simboleggia le passioni che sono espulse dall’anima. Vengono chiuse le porte a significare la “chiusura del mondo visibile”:

“Perciò subito dopo questi riti, la sacra costituzione della santa Chiesa stabilisce la divina lettura del santo Vangelo – che spiega in particolare la sofferenza degli zelanti a causa del Verbo – dopo la quale il Logos, per così dire sommo sacerdote della contemplazione gnostica, venendo a loro dal cielo, distrugge il loro il pensiero della carne, come una sorta di mondo sensibile, allontanando inoltre i pensieri che fanno guardare a terra, come inchiodati ad essa, e riconducendoli di lì, per il tramite della chiusura delle porte ingresso dei santi misteri alla contemplazione delle cose intelligibili.”[10].

La liturgia dei catecumeni rappresenta il cammino che vede l’inizio e la crescita del regno di Dio nella Chiesa, fino alla completa realizzazione della seconda venuta e la conversione dell’anima e la sua entrata nella pratica delle virtù.

I fedeli che restano in chiesa entrano nel regno dei cieli con l’inizio della liturgia dei fedeli e con l’entrata dei santi e venerabili misteri. Questo rito ha una certa importanza perché si tratta del Grande ingresso.

I riti seguenti della liturgia eucaristica prefigurano la visione del mondo a venire: l’entrata delle offerte annuncia la manifestazione di una nuova economia; il bacio della pace simboleggia l’unione degli eletti con il Verbo; il simbolo di fede indica l’azione di grazie; la dossologia del Trisagion, l’unità di uomini e angeli nella lode a Dio; il Padre Nostro mostra la pienezza dell’adozione filiale; il canto Eis aghios (Uno solo è il Santo, uno solo il Signore) indica l’unione dei perfetti con la divinità, la comunione e la deifica­zione escatologica. I riti diventano un assaggio della vita, dopo la parusia, nel Regno[11].

La Mistagogia non ha alcun indizio che attesti una preparazione delle oblazioni, cioè dei doni eucaristici prima della sinassi; il loro ingresso è seguito dal bacio della pace e dalla recitazione del simbolo di fede. Senza riferimento all’anafora (la parte centrale della Divina Liturgia, dal prefazio alla solenne dossologia finale), la Mistagogia passa dal Santo al Padre Nostro.

I riti della comunione per Massimo sono il momento della trasformazione in Cristo di coloro che partecipano all’eucaristia, della deificazione donata con l’eucarestia impartita in Cristo e attraverso Cristo. Gesù trasforma il fedele in se stesso. In questo modo il credente giunge non alla contemplazione delle essenze noetiche, non alle illuminazioni trasmesse dalla gerarchia celeste, ma a Cristo stesso.

Massimo il Confessore vuole dimostrare in primis come, al di là dei riti, ma attraverso di essi, ogni fedele venga introdotto alle realtà ultime: la Chiesa introduce la venuta di Cristo all’interno del tempo e ne anticipa la piena realizzazione nella misura in cui i fedeli si lasciano prendere dal modo di esistere di Cristo al quale i misteri celebrati devono configurarsi[12].

[1] Cf. PG 91, 657-718; MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, a cura di Rosa Maria Parriello, Paoline 2016.

[2] Cf. C. BOUDIGNON, Maxime le Confesseur était-il constantinopolitain?, in B. Janssens, B. Roosen, and P. Van Deun, Philomathestatos, Studies in Greek Patristic and Byzantine Texts, presented to Jacques Noret, in Orientalia Lovaniensia Analecta 137, (2004), Leuven Peeters, 39-40.

[3] Cf. I. H. DALMAIS, Place de la Mystagogie de saint Maxime le Confesseur dans la théologie liturgique byzantine, in Studia Patristica V/3, Texte und Untersuchungen 80, Berlin 1962, 283.

[4] Capitolo II; MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, 159-161.

[5] Capitolo IV; Ibidem, 165.

[6] Capitolo IX; Ibidem, 199.

[7] Capitolo VIII; Ibidem, 195.

[8] Capitolo XIV; Ibidem, 207.

[9] Capitolo XV; Ibidem, 209.

[10] Capitolo XIII; Ibidem, 203-205.

[11] Cf. Capitoli XVI-XX; Ibidem, 209-215.

[12] Cf. I.-H. DALMAIS, Mystère liturgique et divinization dans la Mystagogie de saint Maxime le Confesseur, in Jacques Fontaine and Charles Kannengiesser, Epektasis, Mélanges patristiques offerts au Cardinal Jean Daniélou, Beauchesne Paris 1972, 60.

diac. Antonio Calisi


La mistagogia liturgica nelle Omelie di Teodoro di Mopsuestia e la tradizione antiochena

Mentre lo Pseudo-Dionigi e gli alessandrini sottolineano l’approccio anagogico, gli Antiocheni enfatizzano l’allegorico o tipologico. Nell’esegesi scritturale, i commentatori sottolineano la connessione degli eventi e delle persone nell’Antico Testamento che prefigurano Cristo. Applicato alla liturgia, questo metodo sottolinea la connessione dei riti con il Gesù storico. Quindi il battesimo è inteso come la rievocazione storica del battesimo di Gesù nel Giordano e in particolare della sua morte e risurrezione: l’eucaristia è vista come un memoriale non solo dell’ultima cena, ma dell’intero ministero terreno di Cristo, nonché una prefigurazione della liturgia celeste.

Questo approccio, visto per la prima volta negli scritti di Isidoro di Pelusio e Giovanni Crisostomo, è riepilogato da Teodoro di Mopsuestia (Antiochia di Siria, 350 circa – Mopsuestia, 428), nelle sue Omelie catechetiche, scritte nel 392-428[1].

Coevo di Giovanni Crisostomo, allievo di Diodoro di Tarso e del retore Libanio, Teodoro è uno dei principali rappresentanti della scuola esegetico-teologica antiochena tra il IV e il V secolo. Ordinato presbitero da Flaviano, vescovo di Antiochia verso il 383, viene consacrato nel 392 vescovo di Mopsuestia in Cilicia come subentrante di Olimpio. Teodoro muore nel 428.

Le 16 Omelie di Teodoro rappresentano le fonti più importanti per la ricostruzione dell’autentico suo pensiero teologico e per lo studio dell’iniziazione cristiana nell’ambiente antiocheno nel V secolo.

Le prime 10 Omelie sono indirizzate ai catecumeni, le altre 6, mistagogiche, sono dirette ai neofiti; in esse si spiega la preghiera del Padre nostro, la liturgia battesimale e l’eucaristia.

Secondo Teodoro, dopo la rinascita battesimale, il cristiano deve ricevere indispensabilmente l’eucaristia, alimento della grazia dello Spirito Santo che dona l’immortalità. Il battesimo e l’eucaristia sono due realtà indispensabili per il cristiano[2].

L’Eucaristia è il memoriale dell’unico ed eterno sacrificio di Gesù sulla croce per la salvezza dell’umanità e primizia dell’economia futura[3].

Il medesimo Spirito, che nel battesimo ha rigenerato a nuova vita, trasmuta il pane e il vino mediante l’epiclesi nel corpo e nel sangue di Gesù[4]. Per ricevere un così grande dono, le disposizioni interiori non possono che essere degne della filiazione ricevuta, frutto di penitenza e confessione dei peccati[5].

Questo mistero si realizza nel tempo e nello spazio, nella liturgia terrestre, nella Chiesa. In essa si attua lo scambio tra realtà visibili ed invisibili dove l’attenzione è focalizzata sul ministero terreno di Cristo, sugli eventi storici della sua vita che sono rievocati e resi presenti nei riti, così come sul sommo sacerdozio che Cristo ora esercita in cielo.

“Siccome, infatti, sono i segni delle realtà del cielo che compie nelle immagini, occorre che questo sacrificio ne sia anche la manifestazione; e il pontefice fa una specie di immagine della liturgia che (avviene) nel cielo, poiché non è stato possibile che noi fossimo sacerdoti, (noi) che compiamo il nostro ufficio al di fuori della Legge, se non avessimo l’immagine delle (realtà) celesti”[6].

“Noi tutti dunque, in ogni luogo, in ogni tempo e continuamente, celebriamo il memoriale di questo medesimo sacrificio, perché ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, commemoriamo la morte di nostro Signore finché egli venga. Ogni volta dunque che si compie la liturgia di questo temibile sacrificio, – che è manifestatamente una similitudine delle realtà celesti, che al suo compimento otteniamo il favore di prendere attraverso il mangiare e il bere in vista di partecipare veramente ai beni futuri, – occorre che ci rappresentiamo nella nostra coscienza, come fantasmi di chi è in cielo; con la fede, abbozziamo nella nostra intelligenza la visione delle realtà celesti, considerando che Cristo, che è in cielo, che è morto per noi, è risuscitato ed è salito al cielo, è lui stesso, ancora adesso, che è immolato per mezzo di queste figure, in modo che, considerando dai nostri occhi, con la fede, questi ricordi che si compiono ora, siamo condotti a vedere ancora che egli muore, risorge e sale al cielo, – cosa che un tempo è avvenuta per noi”[7].

In questo tipo di mistagogia allegorica, riti e oggetti iniziano ad assumere un significato specifico e dettagliato. Quanto segue, per esempio, è la descrizione di Teodoro della processione del Grande Ingresso, dove i doni vengono portati sull’altare:

“Per mezzo delle immagini, «dobbiamo vedere Cristo che ora è condotto, va verso la passione, e che, in un altro momento, è di nuovo, steso verso di noi sull’altare per essere immolato». Quando, infatti, nei vasi sacri, nelle patene e nei calici, esce l’oblazione che sta per essere presentata, devi pensare che, condotto verso la passione, esce Cristo nostro Signore. […] Occorre dunque che tu consideri che i diaconi (rappresentano) l’immagine delle “potenze invisibili al servizio”, ora che portano dal di fuori la briciola per l’oblazione; (tranne che) per il loro ministero soltanto inviano Cristo nostro Signore verso la passione vivificante, per mezzo di queste commemorazioni. E quando l’hanno portata, la poggiano sul santo altare per il perfetto compimento della passione. In questo modo crediamo che ormai in una sorta di tomba (Cristo) è posto sull’altare e ha già subito la passione. «Per questo motivo alcuni diaconi che stendono le tovaglie sull’altare, presentano così la similitudine dei lini della sepoltura; e coloro che», quando è stato già deposto, «si tengono dai due lati e agitano l’aria che sta al di sopra del corpo sacro» e lo custodiscono perché nulla vada su di lui. Anch’essi per mezzo di quest’apparato mostrano la grandezza del corpo deposto, – poiché è abitudine tra i grandi di questo mondo anche, quando su un letto (di lutto) è accompagnato il corpo di uno dei loro morti, come per onorarlo gli altri lo ventilano. Occorre che questo abbia luogo ora che il corpo sacro, temibile, e che non è suscettibile di alcuna corruzione, si offre per essere deposto; occorre che lui, che non risuscita dopo un intervallo di tempo ad una natura immortale, da tutti i lati, davanti a lui, coloro che sono preposti a quest’ufficio lo ventilano, gli rendano l’onore opportuno, e, con quest’azione, mostrino a tutti i presenti la grandezza del corpo sacro che è stato deposto”[8].

Questa parte della liturgia viene interpretata come rappresentante della passione e del corteo funebre di Cristo, e questo tema è continuato nella descrizione della preghiera eucaristica che culmina con l’epiclesis, l’invocazione dello Spirito Santo:

“Tutti dunque, per mezzo di questi ricordi, con questi simboli e segni che furono compiuti, come da Cristo nostro Signore risorto dai morti ci avviciniamo con soavità e grande gioia; e secondo il nostro potere, lo stringiamo soavemente, perché vediamo che è risorto dai morti, anche perché speriamo di arrivare a partecipare alla resurrezione; – poiché, anche lui, come in una specie di tomba, risuscitò dal santo altare dai morti, secondo l’immagine che si è compiuta; si avvicinò a noi con la sua apparizione, e con la comunione con lui annuncia a tutti la resurrezione. Anche se viene da tutti noi dividendo se stesso, è intero in ogni parte e vicino a tutti noi; si consegna a ciascuno di noi, perché lo prendiamo e lo abbracciamo con tutta la nostra capacità e che mostriamo il nostro amore verso di lui secondo ciascuno. Così veramente il corpo e il sangue di nostro Signore ci nutrono e ci fanno attendere di essere trasformati in una natura immortale e incorruttibile”[9].

Quindi l’intera liturgia diventa una drammatica rievocazione della passione di Cristo, qualcosa che era di scarsa preoccupazione per gli alessandrini. Qui vediamo l’uomo Cristo che, ora risorto, serve come nostro Sommo Sacerdote davanti al trono di Dio, ma che è ancora uomo.

Dobbiamo cercare a Gerusalemme lo sviluppo di questo sistema storicizzante del simbolismo liturgico, che dipende chiaramente da un metodo esegetico antiocheno. Nel IV secolo, Gerusalemme divenne un centro di pellegrinaggio e Costantino iniziò una massiccia campagna di costruzione per erigere monumenti alla nuova religione dell’Impero romano. Così chiese, basiliche e martiria furono costruite sui siti dei principali eventi del ministero terreno di Cristo. La liturgia che si sviluppò qui in quel momento era formata da stazioni: la Grande e Santa Settimana, per esempio, era composta da una serie di processioni verso i vari luoghi santi, con letture appropriate per segnare gli eventi drammatici della passione di Cristo. La migliore descrizione viene da Egèria (IV-V secolo), autrice di un Itinerarium in cui la donna racconta il suo viaggio nei luoghi santi che visitò a Gerusalemme tra il 381 e il 384. Di seguito è riportata una descrizione di alcuni dei servizi del Venerdì Santo:

“Così, quando incomincia il canto dei galli, si ridiscende dall’Imbomon con inni e si giunge proprio nel luogo in cui pregò il Signore, come è scritto nel Vangelo: E avanzò tanto quanto un tiro di sasso e pregò, con quello che segue. Ivi sorge una bella chiesa. Il vescovo vi entra insieme a tutto il popolo: viene fatta una preghiera intonata al luogo e al giorno, si dice anche un inno appropriato e viene letto il brano del Vangelo dove il Signore dice i suoi discepoli: Vegliate per non entrare in tentazione. Il passo è letto per intero, poi nuovamente si fa un’orazione.

Di là poi, con inni, tutti fino al bambino più piccolo, insieme al vescovo, discendono a piedi dal Getsemani. Essendo le persone in grande numero e stanche per le veglie e indebolite dai digiuni quotidiani, dato che si deve discendere da un monte tanto grande, si va al Getsemani adagio adagio, con inni. Più di 200 ceri di chiesa sono disposti in modo da rischiarare tutta la folla.

Giunti al Getsemani, da prima si fa un’orazione appropriata, si dice un inno, poi si legge il passo del Vangelo là dove si racconta della cattura del Signore. Alla lettura di questo passo tante sono le grida, tanti i gemiti del popolo in pianto che i lamenti della moltitudine giungono fino a quasi alla città…”[10].

La chiesa dimostra, nella struttura liturgica, che la storia della salvezza continua nel tempo anche nei singoli riti. Il battesimo, come possiamo vedere dalle orazioni catechetiche di Giovanni di Gerusalemme, iniziò ad essere interpretato principalmente come una rievocazione della morte e risurrezione di Cristo, sulla base del testo di Romani 6:

“vi siete immersi tre volte nell’acqua e di nuovo ne siete emersi e là significavate simbolicamente la sepoltura di tre giorni del Cristo. Come infatti il Salvatore nostro trascorse allora tre giorni e tre notti nel cuore della terra, così anche voi con la prima emersione avete imitato il primo giorno del Signore sulla terra e con l’immersione la notte… E in uno stesso momento siete morti e siete rinati; anche quell’acqua salutare fu per voi e tomba e madre…[11].

Il tema del battesimo come partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo non è ovviamente nuovo, ma la rinnovata enfasi su di esso in questo momento, e in particolare il nuovo modo in cui è espresso, è il risultato diretto di questa nuova tendenza. Da questa applicazione al rito battesimale, il passo è breve verso una siffatta tipologia di eucaristia.

Anche da Gerusalemme proviene un rito topografico del simbolismo liturgico che troviamo descritto nel testo di Egèria; l’autrice racconta come ai vespri quotidiani celebrati nella chiesa del Santo Sepolcro, chiamati Lychnicon, parola greca corrispondente a Lucernarium, all’ora decima, cioè alle 16, avveniva l’accensione delle luci nel santuario e venivano cantati i salmi lucernali; dopodiché seguivano preghiere, litanie e benedizioni.

“Tutta la gente si raduna come le altre volte all’Anastasis: si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una grandissima luce. La luce non viene portata dal di fuori, ma è tratta dall’interno della grotta, dove notte e giorno, ininterrottamente, risplende una lampada posta dietro i cancelli…”[12].

Questo rito è presente nella liturgia bizantina detta Proiasmena dei Doni Presantificati, dove il sacerdote, attraversate le Porte Sante, benedice il popolo con un segno di croce fatto con la candela e l’incensiere dicendo: “La luce di Cristo appare a tutti”. Anche l’illuminazione delle candele di Pasqua deriva dallo stesso simbolismo: il Cristo risorto, la luce del mondo, emerge dalla tomba. Anche qui il passo è breve per il simbolismo topologico:

“Ciò che fu diffuso sulla mappa della storia santa di Gerusalemme venne scritto in piccolo nelle chiese più umili della cristianità orientale… Così l’abside del santuario diventa la grotta del sepolcro e l’altare la tomba da cui la salvezza è venuta al mondo… La sua applicazione all’eucaristia era così congrua da essere inevitabile. Il passo successivo, o forse concomitante, poiché la sequenza evolutiva non è poi così chiara, è stato il simbolismo del corteo funerario al trasferimento e alla deposizione dei doni”[13].

[1] Cf. F. PLACIDA, Le omelie battesimali e mistagogiche di Teodoro di Mopsuestia, Coop. San Tommaso – Elledici, Torino 2008.

[2] Cf. Omelia XV, 4; Ibidem, 192-193.

[3] Cf. Omelia XV, 15; Ibidem, 198-199.

[4] Cf. Omelia XVI, 12; Ibidem, 219-220.

[5] Cf. Omelia XVI, 31; 44; Ibidem, 228-229; 235.

[6] Omelia XV, 15; Ibidem, 198.

[7] Omelia XV, 20; Ibidem, 202.

[8] Omelia XV, 25-26; Ibidem, 204-205.

[9] Omelia XVI, 26; Ibidem, 226.

[10] EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, traduzione, introduzione e note a cura di Paolo Siniscalco e Lella Scarampi, Città Nuova editrice, Roma 1985, 161-162.

[11] CIRILLO E GIOVANNI DI GERUSALEMME, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, traduzione di Gabriella Maestri e Victor Saxer, introduzione e note di Victor Saxer, Paoline, Milano 1994, 593.

[12] EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, 132.

[13] TAFT, The Liturgy of the Great Church: an Initial Synthesis of Structure and Interpretation on the Eve of Iconoclasm, in Dumbarton Oaks Papers 34-35 (1980-1981), 66.

diac. Antonio Calisi


La mistagogia liturgica nella Gerarchia ecclesiastica dello Pseudo-DionigiI l’Areopagita e la tradizione alessandrina

Il commento dello Pseudo-Dionigi sulla liturgia è contenuto nella De ecclesiastica hierarchia[1]. Questo lavoro si compone di sette capitoli ed è stato scritto probabilmente alla fine del V secolo; egli disegna una visione gerarchica della realtà, specificamente neoplatonica, in cui la realtà e la conoscenza discendono dal principio sommo della creazione, Dio, tramite le intelligenze angeliche, sino ai gradi infimi della materia. Tale gerarchia si riflette nell’ordinamento piramidale della Chiesa e nella sua liturgia.

Ciascun capitolo, dal II al VII, appare diviso in due parti: mentre la prima descrive dettagliatamente la funzione liturgica relativa ad un determinato sacramento o le caratteristiche prerogative dei singoli ordini gerarchici, analoghe a quelle degli ordini angelici, la seconda, intitolata Theorìa, illustra il recondito senso spirituale nascosto nella cerimonia liturgica appena descritta.

Tutti i riti liturgici e gli stessi sacramenti sono caratterizzati da una moltitudine di immagini e di simboli sensibili che velano le verità più alte. Partendo da questa simbologia, chi vuole progredire deve elevarsi alle verità nascoste adottando il metodo “anagogico”, basato sull’interpretazione allegorica o spirituale dei simboli stessi:

“I sacri simboli sensibili sono immagini delle realtà intelligibili e la guida e la strada <che conducono> ad esse, mentre le realtà intellegibili sono il principio e la base scientifica dei simboli sensibili di cui fa uso la gerarchia”[2].

La realtà, quindi, è spirituale e i simboli materiali sono solo i mezzi con cui viene comunicata. Quindi il mondo materiale ha valore solo nella misura in cui è simbolico, cioè solo nella misura in cui è in grado di comunicare per rivelare le realtà spirituali. Il simbolo diventa così un mezzo di ascesa spirituale:

“… la nostra gerarchia invece, conformemente alle nostre capacità, la vediamo moltiplicata nella varietà dei simboli sensibili, dai quali veniamo elevati per via gerarchica alla deificazione simile all’uno secondo la misura adatta a noi”[3].

Un chiaro esempio di metodo “anagogico” in chiave neoplatonica è rappresentato dal modo in cui viene interpretata la distribuzione della comunione: la suddivisione tra molte persone dell’unico pane e del vino contenuto nell’unico calice è il simbolo, da una parte, del frazionamento che caratterizza la processione dell’energia divina dall’unità della fonte originaria senza che quest’ultima subisca alterazioni, dall’altra, della processione dell’unico, semplice e “arcano” Logos verso la composita natura umana.

“A coloro che agiscono santamente il vescovo rivela tutto questo, mettendo in mostra i doni nascosti, dividendo in molte parti la loro unità e facendo entrare in comunione con essi coloro che li ricevono grazie alla perfetta unione dei doni distribuiti con le persone in cui essi entrano. Egli rappresenta così in modo sensibile, come in immagini, la nostra vita <spirituale>, e ci fa vedere Gesù Cristo mentre riceve, per amor nostro, una forma da noi, diventando completamente, da quel Dio nascosto che era, un uomo come noi pur senza confondersi <con noi>, mentre procede dall’unità a lui connaturata verso i nostri particolarismi senza alterarsi e mentre chiama il genere umano alla partecipazione di se stesso e dei propri beni grazie a questo suo benefico amore; se veramente ci uniremo alla sua divinissima vita cercando secondo le nostre possibilità di renderci simile ad essa, anche in tal modo diverremo veramente partecipi di Dio e dei beni divini.”[4].

Dunque, per lo Pseudo-Dionigi, la liturgia è un’allegoria del progresso dell’anima dalla divisione del peccato alla comunione divina, attraverso un processo di purificazione, illuminazione, perfezione, ripreso nei riti.

La liturgia non è qualcosa inventato da noi per fare un’esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, si dilata unendosi con il linguaggio di tutte le creature. Non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin, un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica.

L’intera liturgia è quindi percepita come un’ascesa dal materiale allo spirituale, dalla molteplicità dell’esistenza inferiore all’unità del divino. L’intera enarxis e la Liturgia della Parola sono viste come una preparazione spirituale, una purificazione, la rimozione dell’impuro (catecumeni e penitenti) e di tutti i pensieri e le passioni materiali.

Le affinità dello Pseudo-Dionigi con Origene e con la tradizione alessandrina sono evidenti. Troviamo l’attenzione tipicamente alessandrina alla divinità di Cristo, con la conseguente difficoltà nell’esprimere il ministero terreno di Cristo, la sua morte e risurrezione. L’atto salvifico essenziale consiste nella sola incarnazione, che è la fonte della nostra unione con Dio, resa possibile dalla nostra partecipazione alla liturgia. La deificazione si ottiene attraverso l’imitazione etica della perfezione del Logos incarnato. Il Gesù storico, sebbene non negato, sfuma sullo sfondo. Il risultato di questo approccio è una cristologia e una soteriologia squilibrata, nonché una visione squilibrata della liturgia, poiché si presta poca attenzione a ciò che la stessa liturgia ha da dire nei suoi testi e riti, imponendo su di essa presupposti filosofici. Facendo propria la teoria plotiniana di Dio che, per la sua infinità è al di sopra dell’essere e di ogni realtà comprensibile nelle categorie della ragione discorsiva, l’autore dice che l’atto più sacro della liturgia è la frazione:

“Dopo aver scoperto e diviso molte parti il pane <ancora> velato indiviso, e dopo aver diviso simbolicamente tra tutti l’unico calice, moltiplica e distribuisce l’unità <originaria> compiendo così un santissimo atto sacro”[5].

Lo pseudo Dionigi applica quindi alla liturgia lo stesso metodo che si usa nell’interpretazione della Sacra Scrittura e che ha ereditato da Filone e dai padri alessandrini e Cappadoci, cioè il considerare un insieme di alte verità teologiche coperte da veli (utilizza il termine tecnico παραπετασμάτων parapetasmàton usato da Proclo Licio Diadoco per indicare i “veli” che celano le verità più alte), da simboli e da immagini; tale metodo ha anche un preciso parallelo in quanto Proclo dice sulla mitologia e la religione greca che sono anch’esse velate da simboli allegorici; e studi abbastanza recenti hanno mostrato come l’adozione del metodo “anagogico” abbia un chiaro precedente in Giamblico di Calcide[6].

 

[1] Testo greco in PG 3, 369-485; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, introduzione, traduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Città Nuova, Roma 2002.

[2] Capitolo II, 3, 2; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 60.

[3] Capitolo I, 2; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 47.

[4] Capitolo III, 3, 13; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 94-95.

[5] Capitolo III, 3, 12; PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA, La gerarchia ecclesiastica, 93.

[6] Cf. S. LILLA, Introduzione allo studio dello ps. Dionigi L’Areopagita, in Augustinianum 22 (1982), 559-560; P. ROREM, Iamblichus and the Anagogical Method in Pseudo-Dionysian Liturgical Theology, in Studia Patristica XVII, 1, Oxford 1982, 453-460.

diac. Antonio Calisi